“Dai che ci siamo quasi!”. Ecco, con queste parole sintetizzerei la nuova (e inaspettata) uscita discografica del trio
Levin Minnemann Rudess. Quando provai a recensire il disco d’esordio (A.D. 2013) ero solo un
Ghost Writer, e non ebbi il coraggio di dare un voto: “tante note”, tanto talento, tanto mestiere, ma non percepivo quella che chiamerei “intesa”, tipica di coloro che sono abituati a suonare insieme da tempo.
“From The Law Offices Of”, da questo punto di vista, è un deciso passo in avanti: i brani sono più brevi, focalizzati e mediamente più fluidi, anche se, inevitabilmente, le influenze delle band madri non sono difficili da riconoscere e da individuare.
L’inizio di
“Back To The Machine” fa immediatamente pensare al progetto The Aristocrats, con un
Jordan Rudess più “rumoroso” che “virtuoso”, almeno fino al doppio assolo synth/Hammond.
“Ready, Set, Sue” vede il tastierista fare la parte del leone tra atmosfere Liquid Tension Experiment e rimandi alla propria carriera solista (periodo
“Rhythm Of Time” per intenderci). L’ostinato del basso di
“Riff Splat” profuma di “nervosismo” crimsonico e prelude alla più sperimentale (e vagamente caotica)
“What Is The Meaning?” (curioso l’utilizzo dei sample che recitano il titolo).
“Marseille” è il primo pezzo in cui i toni vengono smorzati e si fa strada prepotentemente il pianoforte, con soli di memoria Rush ma un finale da denuncia (a mio avviso i finali dei brani qui presentati sono quasi tutti discutibili, ma questo in particolare fa gridare vendetta).
“Good Day Hearsay” vorrebbe essere un brano heavy e “dritto”, con
Rudess che si diverte a fare il chitarrista, ma ovviamente i tre ci impiegano poco a complicare il tutto.
“Witness” è uno dei momenti top del full-length, un po’ LTE, un po’
“Fanfare For The Common Man” (ascoltate il lead synth) e un po’ blues stradaiolo. C’è spazio anche per il sound vintage e rétro con
“Balloon”, tra arpeggi pinkfloydiani rubacchiati a
“Goodbye Blue Sky” e layer di mellotron.
“When The Gavel Falls” è la traccia più riuscita del lotto, quello che avrei sempre voluto sentire dai tre fenomeni: un tastierista che fa il tastierista, un bassista che fa il bassista e un batterista che fa il batterista, in un riuscito alternarsi di momenti più tetri e altri più solari.
“The Verdict” pecca un po’ di autoindulgenza, tra elettronica, influenze medio-orientali e ambient di scuota Tangerine Dream. La breve ma intensa
“Free Radicals” profuma di
Pat Metheny e ci introduce a
“Magistrate”, più marcatamente prog, con picchi ossessivi, intermezzi clavicembalistici (?) e, finalmente, una chiusura decorosa.
“Shiloh’s Cat” è il cosiddetto “brano che non ti aspetti”, un tributo all’AOR degli Anni Ottanta (Toto, Asia, Journey) con tanto di side-stick e solo di sax di Giordano. Il finale è lasciato a una non entusiasmante
“The Tort”, carica di elettronica, atmosfere ansiogene e tentazioni funk (il clavinet col wah-wah aiuta ma non basta).
Ripeto,
“dai che ci siamo quasi!”. L’identità del progetto
LMR va finalmente delineandosi: ora mi aspetto grandi cose dal futuro di questo super-gruppo strumentale. Avanti così.
Un sentito ringraziamento va a Scott Schorr della Lazy Bones Recordings per l’anteprima del disco, in uscita il 18 Luglio p.v.