Non è sempre facile essere “oggettivi” quando si parla di musica. Può infatti capitare che una certa proposta musicale, per quanto inappuntabile, possa fare presa o, al contrario, lasciare del tutto indifferenti. Per quanto mi riguarda, qui ci troviamo nella prima situazione descritta: proverò a “giustificare” la mia valutazione ma non sono sicuro di riuscirci…
I
Dream The Electric Sleep devono la loro fama di
“new sensation” del progressive (genere che di fatto sfiorano appena) per aver nuovamente mescolato le “carte in tavola” di un sound che, ne sono convinto, non smetterà mai di stupire gli ascoltatori più incontentabili o semplicemente curiosi. Se il precedente
“Heretics” peccava un po’ di autoindulgenza (e la corposa durata del full-length non aiutava di certo), con questo
“Beneath The Dark Wide Sky” gli americani sono probabilmente riusciti a mettere meglio a fuoco la propria essenza innovativa.
Già dall’introduttiva
“Drift” ci troviamo al cospetto di arrangiamenti molto stratificati che possono rimandare all’alternative o al grunge di metà Anni Novanta, un crescendo che raggiunge il suo apice al quarto minuto.
“Let The Light Flood In” è più lineare,
mainstream nel senso buono del termine, con un ritornello che, in tempi non sospetti, avrebbe potuto comporre
Dave Grohl. Con
“Flight” le sfumature diventano quelle british di Radiohead e Muse mentre lo strumentale
“Whe Who Blackout The Sun” individua un ponte ideale tra i Pink Floyd e gli Smashing Pumpkins.
“Hanging By Time” gioca con i tempi dispari e anticipa
“Culling The Herd”, uno degli episodi più progressivi in assoluto, dove un muro di suono creato dalle chitarre lascia trapelare una pregevolissima costruzione armonico-melodica che sfocia in un break strumentale da pelle d’oca. La breve, ipnotica e bucolica
“The Last Psalm To Silence” prelude a
“The Good Night Sky”, traccia che potrebbe sembrare una bonus track di
“Snakes And Arrows” dei Rush. Ascoltando
“Headlights” ci si rende conto di come suonerebbero i Coldplay in salsa heavy mentre nella successiva
“Black Wind” è ancora lo spettro di
Bellamy e soci ad aleggiare, nonostante il groove sia meno incalzante e il Mellotron rimandi a sonorità ben più antiche.
“All Good Things” è una degna chiusura, sperimentale e crimsonica all’inizio, delicata e melodica nell’evoluzione.
Una copertina immaginifica e una produzione molto “umida” (e lontanissima dai canoni metal) sembrano rimarcare con ancora più forza che il futuro di certa musica passa anche da qui.
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