*DISCLAIMER: il frutto della recensione che segue è il mio personale pensiero ed è il ragionato pensiero di un fan di primo pelo dei Sonata Arctica, uno che coi Sonata Arctica ha iniziato a 14 anni ad avvicinarsi al mondo del power metal, uno che all’uscita di Ecliptica già c’era. Uno che ha sofferto gli addii di Harkin e Liimatainen prima e di Marko Paasikoski poi, uno che ha imparato ad apprezzare Viljanen e odiato Klingenberg praticamente da subito, uno a cui “Unia” è piaciuto un sacco, uno a cui è piaciuto pure “Stones Grow Her Name”. Uno che, insomma, coi Sonata Arctica ci è “cresciuto” ed è stato un fanboy.Detto ciò, i
Sonata Arctica sono morti. Sepolti sotto il cumulo di macerie di una casa meravigliosa che loro stessi avevano provveduto a costruire in più di 20 anni di onoratissima carriera, provvedendo nel contempo alla sua stessa conflagrazione.
Lo dico con cognizione di causa, proprio per via del disclaimer di cui sopra. Ho visto i 5 di Kemi nascere e crescere, evolversi e involversi, ho visto e sentito volti, voci, suoni e note e ho realizzato, dopo un mese di ascolti di “
The Ninth Hour” (titolo che ricorda ovviamente il nono disco della band), che i giovanotti di belle speranze che 17 anni fa infiammavano il mondo del power metal con quel capolavoro di “Ecliptica”, bissavano (con una prima spruzzata di “prog”) due anni dopo con lo splendido “Silence”, viravano decisamente al prog con il da me apprezzatissimo “Unia” e si inabissavano nei fondali della mediocrità con “Pariah’s Child” e con quell’abominio di “Ecliptica Revisited”, sono finiti, kaput.
L’ho capito dalle interviste promozionali del singolo “
Closer to an Animal” nelle quali, al netto dell’algida calma che tipicamente caratterizza il popolo finnico, non traspariva dagli occhi e dalle parole dei Sonata nemmeno un briciolo di emozione riguardo il singolo o l’album nella sua totalità. Zero emozioni, zero anima, cosa che inevitabilmente va a ripercuotersi sulla musica, sui testi, sui live, su qualsiasi cosa.
Parlando del singolo, al primo ascolto l’avevo trovato carino ma dannatamente noioso e prevedibile, alla strenua di “The Wolves Die Young”. Due singoli fiacchi e spompati, non brutti in senso stretto ma dannatamente deludenti. “Closer to an Animal” non fa eccezione e si dimostra un’opener scialba…il problema serio è che è una delle canzoni migliori del disco insieme alla successiva “
Life”, la quale soffre degli stessi problemi del singolo. Il meglio però lo si raggiunge con la terza traccia, “
Fairytale”, che riprende ritmi piuttosto serrati, grazie soprattutto ad una parte iniziale davvero azzeccata (in cui Klingenberg fa per una volta un buon lavoro, anche se scimmiottando vagamente Nobuo Uematsu) e a un bel ritornello.
Da lì in poi però il vuoto pneumatico. All’inizio imputavo la pochezza del disco al fatto che non mi piacessero più le linee vocali di Kakko, trovando la musica ancora passabile. Lo ascoltavo, lo riascoltavo e non riuscivo a farmi piacere nulla delle scelte stilistiche del buon Tony, zero. Poi mi sono accorto che anche a livello musicale, dietro a soluzioni apparentemente ricercate, c’era il nulla totale.
17 anni fa, ai tempi di “Ecliptica”,
Tony Kakko era un cantante fenomenale e un songwriter (pur a volte con l’appoggio di Liimatainen) altrettanto fenomenale. 8 anni e mezzo fa, all’uscita di “Unia”, Kakko era un buon cantante e un buon songwriter, con ancora voglia di cambiare e stupire. Oggi Kakko è un pessimo cantante e un pessimo songwriter, con zero idee e ancor meno voglia di innovare. Si perché la tanto abusata frase “
Dovete smetterla di pensare ai Sonata Arctica come gruppo power, i Sonata Arctica si sono evoluti” è una cazzata di dimensioni abnormi. I Sonata Arctica non ce la fanno più, non hanno più voglia, non hanno più il fuoco dentro. Come si fa a scrivere qualcosa come "
Fly, Navigate, Communicate" e pretendere di avere ancora una credibilità?
E nonostante la tanto sbandierata evoluzione, il prendere le distanze dal passato e le altre fregnacce, piazzano un lupo nella copertina di “Pariah’s Child”, sentono il bisogno (forzati dall’etichetta?) di partorire quell’aborto di “Ecliptica Revisited” e in questo nuovo disco ci infilano una “White Pearl, Black Oceans part.2” della quale nessuno sentiva l’effettivo bisogno. Coerenza questa sconosciuta.
L’unica cosa che si salva di questo disco, oltre alla già citata “Fairytale”, è la copertina. Anche la produzione è deficitaria, con una tastiera in eccessivo risalto e basso e chitarra che a volte quasi non si sentono. Assoli di Elias? Non pervenuti, se non sull'ormai stracitata “Fairytale”.
“
The Ninth Hour” non è un album brutto in senso stretto, è piuttosto un album noioso, piatto e prevedibile, sintomo primo di un’ispirazione che ormai non ha più radici solide. Non mi stupirei se i
Sonata Arctica, terminati gli impegni contrattuali con la Nuclear Blast, si prendessero qualche anno di pausa o, addirittura, decidessero di appendere gli strumenti al chiodo. Ormai la fiamma imperiosa e stentorea che accendeva i cuori dei fan è diventata una fiammella impedita e stentata, che riesce ad alimentare solo il loro livore. Chi nel 2016 apprezza ancora un prodotto dei 5 di Kemi o è un fanboy che si fodera di salame le orecchie prima di ogni ascolto oppure capisce poco di musica, di musica vera, quella che anima i cuori prima che le menti, quella che ti fa amare una band. E l’amore ha bisogno di essere acceso ogni giorno, non si può vivere di soli ricordi, altrimenti la fiamma di cui sopra è destinata a spegnersi nel peggiore dei modi.
Quoth the Raven, Nevermore..