Ascolto sempre volentieri un disco di
John Wesley. Non sono mai stato un grande fan dei chitarristi solisti (a parte alcune ovvie eccezioni, come ad esempio
David Gilmour o
Brian May), troppo “primedonne” ed esibizionisti; ho sempre preferito i secondi (penso a
Mike Rutherford o a
Michael Wilton), quelli dediti al “lavoro sporco” che non tutti sarebbero in grado di svolgere a dovere.
Penso che
John Wesley sia l’alfiere indiscusso di questa categoria, uno capace di stare
credibilmente sul palco a fianco di artisti del calibro di
Steven Wilson, Damon Fox o
Fish. Come autore il suo meglio lo ha probabilmente dato a metà degli Anni Novanta (
“Under The Red And White Sky” su tutti), ma ancora oggi “si difende bene” con album che probabilmente non passeranno alla storia ma che nel loro piccolo scorrono che è un piacere.
Impossibile non sentire le influenze (e le esperienze) dell’americano tra i solchi di questo
“a way you’ll never be” (il minuscolo è voluto): tra omaggi ai Rush più recenti di
Alex Lifeson (la titletrack,
“nada”) ed echi pinkfloydiani (il chitarrismo morbido della splendida
“the silence in coffee” o il groove alla
“Have A Cigar” di
“unsafe space”) sono però le tracce di derivazione wilsoniana a prevalere (la lunga
“to outrun the light”, l’intricata
“the revolutionist”, l’elaborata
“sun.a.rose” ed
“epic”). L’iniziale e ruggente
“by the light of a sun” e la conclusiva
“pointless endeavors” (dalle tinte blues) sono gli episodi a loro modo più originali del full-length, ma non per questo i più riusciti.
Belle composizioni (anche se indubbiamente derivative), bei suoni, begli arrangiamenti e bella (a mio parere bellissima) voce: per me è sì.
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