Lo ammetto, sono artisticamente innamorato di
Tarja Turunen. La sua voce così perfettamente drammatica e possente, il suo songwriting malinconico e dai toni oscuri, il suo ammaliante fascino nordico. E arrivati a questo punto, posso anche dire di invidiare la sua splendida carriera, che dopo aver chiuso la storia con i
Nightwish va avanti già da dieci anni tra svariati album metal e non metal e numerose collaborazioni.
Ho avuto il piacere di recensire il precedente
“Colours In The Dark”, che all’epoca aveva convinto a metà a causa di una qualità altalenante e di scelte stilistiche poco coerenti per convivere felici all’interno dello stesso disco e con un pizzico di curiosità ho ascoltato il nuovo album.
Archiviata la parentesi classica del discreto
“En Plain Air” e l’abbastanza trascurabile EP
“The Brightest Void” uscito appena quattro mesi fa, la bella cantante finlandese torna alla carica dopo tre anni con questo
“The Shadow Self” che non sposta di molto il tiro rispetto al passato, sebbene ci delizi con simpatiche sorprese, alcune positive e altre leggermente più difficili da comprendere e metabolizzare.
Il titolo pone l’accento in modo forte sul nostro lato buio, la zona d’ombra in cui dimorano i nostri pensieri più nascosti e potenzialmente pericolosi, mentre la copertina è molto minimalista e con il suo bianco e nero rende in pieno il senso di contrasto che c’è nella nostra anima. Sarà questo contrasto il leit motiv dell’intero lavoro, un continuo viaggio alla scoperta di sentimenti ed emozioni che molto spesso preferiamo chiudere in un cassetto e dimenticare.
“Innocence” si apre con un triste pianoforte, strumento che per la mia gioia sarà presente in quasi tutte le canzoni, per poi svilupparsi splendidamente in una bella opera di rock sinfonico in cui Tarja sfrutta al meglio le sue caratteristiche classiche. Spettacolare il break di piano a metà. Il primo passo falso arriva già con
“The Demons In You” in cui la troviamo a duettare con la singer canadese
Alyssa White-Gluz (The Agonist e Arch Enemy). Parlo di passo falso perché si vede lontano mille miglia che il metal più pesante non è un genere in cui la
Turunen riesce a destreggiarsi come vorrebbe e dovrebbe. Ne deriva una canzone abbastanza anonima e in alcuni momenti proprio bruttina che lascia soltanto un senso di occasione buttata al vento in nome della sperimentazione.
“The Bitter End”, che è stato il primo singolo a vedere la luce, e
“Love To Hate” ci restituiscono la nostra Tarja nel suo abito più scintillante, quello in cui da vera prima donna si mostra in tutto il suo splendore e sfodera le armi migliori, quel mix di rock drammatico e musica classica che secondo me sono la sua espressione più vera.
La cover scelta questa volta (perché lo fa sempre ormai) è la particolare e difficile
“Supremacy” dei
Muse. Canzone davvero complessa da ridefinire e rielaborare e infatti il risultato finale è sicuramente diverso dall’originale ma a mio parere inferiore per arrangiamenti e imprevedibilità.
Si passa quasi senza accorgersene per la celtica
“The Living End” e la teatrale
“Diva”, canzoni certamente non brutte ma alle quali manca quel pizzico di pepe in più per andare oltre la sufficienza.
“Eagle Eye”, “Undertaker” e
“Calling From The Wild” tornano a solcare territori più favorevoli, tra la
Tarja più classica e i
Nightwish, che per fortuna in questo disco si possono scorgere soltanto da molto lontano. Chiude il tutto la bella
“Too Many” che fa ancora del lato più drammatico e introspettivo il suo punto di forza.
Avevamo lasciato la nostra
Tarja con i suoi dubbi sul cosa voleva fare da grande e possiamo dire con certezza che tali dubbi sono stati in gran parte fugati. Stavolta c’è un filo conduttore a guidare l’intero lavoro su binari abbastanza riconoscibili, anche se un paio di volte il terrore che il deragliamento fosse dietro l’angolo c’è stato. Un buon disco, maturo, che ci mostra un’artista consapevole dei suoi mezzi, ispirata e capace di tenere a bada il mostro interiore della sperimentazione a oltranza. Tranne che per la folle ghost track alla fine. Doveva aver bevuto parecchio.
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