Ho ancora negli occhi e soprattutto nelle orecchie la prestazione che i
Testament sono riusciti a fornire a fine luglio in quel di Roma, una prova di gran classe e potenza, specie con un
Chuck Billy incredibile sia a livello di presenza scenica – e su questo punto andiamo sul sicuro – sia dal punto di vista vocale, stupefacente nelle parti pulite e convincente in quelle più dure.
Già. Peccato sia solo un sogno.
Si spengono le luci del palco e si torna al lume soffuso del salotto, lo stereo Kenwood “la perla nera” che ancora fa il suo sporco lavoro sin dal 1988, e si aprono le danze del nuovo “
Brotherhood of the Snake”, un disco che probabilmente già domani non avrò più voglia di ascoltare.
E’brutto? No, assolutamente, per carità.Ma è inutile. Non sa di nulla, i brani sono fiacchi, non c’è un brano memorizzabile, assoli a parte (
Skolnick stavolta si nasconde meno da quando è tornato a casa base, e questo è decisamente un bene) non c’è un refrain, un coro da cantare, non dico una “
Souls of Black” o una “
Alone in the Dark” ma possibile che tutta la forza melodica del thrash sia scomparsa? E sì che, a differenza del fin troppo monolitico predecessore “
Dark Roots of Earth” che basava tutto su impatto e groove, qui
Peterson di melodie old-style ha tentato l’inserimento in dosi massicce, escluso qualche brano qua e là tipo le orride “
Burn in a Rut” o “
Black Jack”. Eppure queste melodie non funzionano, o perlomeno non funzionano a dovere: la frustata di “
Centuries of Suffering”, che una volta sarebbe stata adagiata su un tappeto empatico come la vecchissima e sottovalutata “
Blessed in Contempt”, rimane come al solito un tupa-tupa che punta SOLO su velocità ed impatto, mentre le più accessibili “
The Pale King” e “
Stronghold” – che in ogni caso rimangono i brani più validi del disco – non posseggono la potenza necessaria e non trascinano come dovrebbero.
In definitiva, cosa convince?
1) La presenza di Skolnick, non più relegato a mera presenza scenica: gli assoli ci sono e funzionano, alleluja!
2) Deo gratias, per una volta la produzione di
Andy Sneap, l’uomo che ha devastato il sound di milioni di band con la sua supercompressione perenne, non è così scandalosa: è meno plasticosa del solito e questo è di per sé un miracolo che quasi vale da solo l’acquisto del disco;
3) Molto meno impatto e groove e reinserimento (purtroppo non sempre riuscito, anzi…) di più melodia all’interno di quasi ogni brano: solo questo me lo fa preferire, così dopo i primi ascolti, al groovoso "Dark Roots of Earth".
E...tutto questo basta ad incensare un disco?
Io posso incensare i
Testament in generale, band che ADORO, ma sparare votoni tipo 8 o addirittura 9 a dischi come questo vuol dire prendere per il culo gli stessi Testament e la loro carriera, fatta di veri capolavori, non certo questo “
Brotherhood of the Snake”, che rimane un disco perlomeno decente ma che rischia tremendamente di scomparire in pochissimo tempo dagli ascolti.
Sperando di sbagliarmi, rimane la sensazione di un ennesimo "
accontentiamoci che i Testament hanno fatto uscire un nuovo disco" e invece no, proprio perchè hanno scritto la storia del thrash non mi accontento e rimarrà lì come testimonianza, superflua, dei Testament del 2016.
Peccato, stavolta la direzione era quella giusta, ma è mancata l'ispirazione. E senza quella non c'è esperienza che tenga, non si può sopperire.
Voglio citare in chiusura la sempre lucidissima analisi del mio unico confronto in campo musicale, che in due righe rende vano ogni mio delirio sproloquistico.
Sempre lui, you know who you are ha scritto precedentemente:
Mi fa due palle.
È una vecchia che si tinge i capelli di rosa e si mette il collare da cane perché ha visto delle ventenni alternative che lo facevano.
Invece potrebbe indossare un vestito da sera di taglio classico e fargli mordere la polvere.