Copertina 8,5

Info

Anno di uscita:2016
Durata:56 min.
Etichetta:Metal Blade Records

Tracklist

  1. A MEANS TO NO END
  2. DON'T STARE AT THE EDGE
  3. SYMPHONY OF THE EGO
  4. SILENT CONSENT
  5. THE FLIGHT
  6. DREAMERS
  7. ENDING TO A MEANS
  8. PEACEFULLY LOST
  9. NOT EVERYTHING IS SAID
  10. TO BE TOLERATED
  11. BLAH BLAH
  12. A PROMISE, A DEBT
  13. ABANDON TO RANDOM

Line up

  • Gabriel Pignata: bass
  • Federico Paulovich: drums
  • Ralph Salati: guitars
  • Matteo Di Gioia: guitars
  • Paolo Colavolpe: vocals

Voto medio utenti

Tosta. Tosta, tosta, tosta. Affrontare un album come quello dei quipresenti Destrage è sempre un’impresa tos..ardua. No giuro, non è una scusa meschina per giustificare il fatto che sto consegnando la recensione a 20 giorni dall’uscita del disco nei negozi eh, sia mai. E’ che album così eclettici, poco inquadrati ed etichettabili, a volte possono sviare i giudizi, possono ingannare, possono illudere e poi deludere. O stupire.

A Means to an End”, successore del fortunatissimo “Are You Kidding Me? No.” del 2014 è uno di quei dischi che stupiscono al primo ascolto, stupiscono al quinto e tornano a stupire ancora e ancora, all’infinito. E’ così ricco di sfumature, di richiami più o meno storici e di soluzioni innovative che è impossibile, con lo scorrere del tempo, non trovare o scoprire qualcosa di nuovo all’interno delle intricate trame dei 13 brani che lo compongono. Facciamo 12 dai, che la title-track è più una sofisticata intro che altro.
Il solco percorso dai nostrani coi precedenti 3 album viene scavato ulteriormente e percorso in tutta la sua lunghezza, ma le variazioni di stile che fanno capolino qua e là sono dannatamente intriganti. Paradossalmente però è una traccia come “Don’t Stare at the Edge” a stupire di più, per “colpa” di una linearità che raramente avevamo visto in un brano dei milanesi. Attenzione però: linearità non vuol dire banalità, assolutamente. Banalità è, anzi, l’aggettivo più lontano a cui si possa pensare relativamente alla proposta dei Destrage, che fanno dell’eclettismo e della follia un vero e proprio cavallo di battaglia, sulla falsariga di gruppi più o meno contemporanei, Protest the Hero e Dillinger Escape Plan su tutti.
Proprio di questi ultimi i Destrage potrebbero essere definiti gli eredi, in un’affermazione che potrebbe suonare supponente, ma i punti di contatto tra le due band sono sempre più netti col passare degli anni, soprattutto quando pensiamo alla perfetta coabitazione tra il riuscire a essere melodici e catchy e la fusione di generi completamente diversi, il tutto condito da una dose non indifferente di schizofrenia. Come direbbero al di là dell’oceano, “controlled frenzy”, frenesia controllata.
Frenesia che torna assoluta protagonista già con “Symphony of the Ego”, scelta non a caso come lyric video di presentazione dell’album. Ritmi indiavolati, energia sfrenata e allo stesso tempo un ritornello di un catchy da far quasi schifo (in senso positivo!), il tutto ben servito dalla voce strepitosa di Paolo Colavolpe, capace di passare dal growl allo scream al pulito senza battere ciglio, dando alle composizioni dei Destrage quella nota distintiva in più. La successiva “Silent Consent” continua sulla falsariga della precedente, inglobando cambi di ritmo e di velocità di matrice prog e un finale che picchia decisamente sull’acceleratore e sul pulsante della potenza.
E parlando di questo, impossibile non citare i musicanti: la coppia Di Gioia/Salati alle chitarre è una gioia assoluta per le orecchie, capaci di riff al fulmicotone, sfuriate death e spruzzate di djent (“Not Everything is Said” a livello tecnico è una bomba, provocherà senza dubbio problemi alla cervicale di un sacco di gente), mentre le pulsanti linee di basso di Gabriel Pignata sono il vero collante della ragnatela intessuta dai Destrage. Ogni grande squadra ha però un fenomeno e, nel caso dei milanesi, questa palma va senza dubbio a Federico Paulovich, capace di cose dietro le pelli che in tanti possono solo permettersi di sognare, in tantissimi nemmeno quello. “The Flight”, col suo sapore quasi thrash, e la successiva “Dreamers” sono una perfetta dimostrazione del talento del batterista nostrano.
Con “Ending to a Means” abbiamo uno dei due momenti di relax del disco, grazie ad una strumentale che ci permette di conoscere anche il lato più “intimistico” della band, tra il jazz/blues e il rock radiofonico, preludio ad una delle tracce più smaccatamente prog che i Destrage abbiano mai composto, “Peacefully Lost”, che inaugura quella che potremmo definire come la seconda parte del disco, che prosegue con la già citata “Not Everything is Said”, la metalcoriana “To Be Tolerated” e l’irriverente “Blah Blah”, prima del secondo momento di stanca regalatoci da “A Promise, a Debt”, dove è la voce di Colavolpe a farla da protagonista quasi in solitaria. Come se tutto questo viaggio non fosse stato sufficientemente lungo e variegato, ecco che i 7 minuti e mezzo di “Abandon to Random” (anche i titoli bisogna saperli scegliere bene) provvedono a chiudere in bellezza un disco che si candida seriamente a finire nella mia personalissima Top10 di fine anno, forse anche nella vostra.

A Means to No End” è senza dubbio il punto più alto della discografia dei Destrage, compendio di una carriera sempre in salita, dal punto di vista qualitativo. Spero vivamente che questo nuovo capitolo della loro carriera possa permettergli di spiccare il volo anche verso un mercato estero che, finora, è stato buono ma non quanto meritato. Destrage ennesimo orgoglio italiano.

Quoth the Raven, Nevermore..
Recensione a cura di Andrea Gandy Perlini

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