Tra le civiltà antiche quella egiziana è, senza tema di smentite, una delle più affascinanti, una di quelle che maggiormente ha esercitato la sua attrazione su noi "moderni", scrittori, musicisti, pensatori, gente comune... francamente non ho mai capito cosa cazzo ce ne possa importare di gente che viveva nel deserto e che, probabilmente, si accoppiava con gli animali, ma tant'è il mondo è bello perché è vario.
Alla schiera di cultori delle piramidi va aggiunto, nel 2016,
Nekhen, una one man band italiana, che dedica la sua opera di esordio al libro dell’Amduat, forse il principale trattato egizio (del Nuovo Regno) sulla vita nell'aldilà.
"Entering the Gate of the Western Horizon" è un album interamente strumentale che parte dalle suggestioni egizie, rappresentate dalle melodie orientali, e si sviluppa in un suono lento, di matrice sludge / doom, qui e là "interrotto" da momenti ambient che mi hanno portato alla mente certe cose della Cold Meat Industry, senza riuscire, se non per brevi momenti, ad attirare l'attenzione dell'ascoltatore (nello specifico, la mia).
L'album, infatti, risulta essere piuttosto monotono ed anonimo e le poche buone idee sommerse da un suono sempre troppo uguale a se stesso per risultare attraente.
Certo,
Nekhen ce la mette tutta e, innegabilmente, alcune atmosfere sono indovinate, soprattutto nella prima metà dell'album e nel brano finale, ma il risultato complessivo non è di quelli da ricordare o da tramandare ai posteri.
"Entering the Gate of the Western Horizon", allo stato attuale delle cose, può essere utile come sfondo, piuttosto inquietante, per fare altro, magari leggere un buon libro di Lovecraft, ma considerarlo un album da mettersi li ad ascoltarlo per goderne della musica, beh, mi dispiace, ma non ci siamo.
Per lo meno non ancora.
Forse nel futuro, infatti, avremo delle sorprese da questo artista perché del buono c'è e quindi io non dispero e auguro a
Nekhen di sapermi stupire e farmi cambiare idea.
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