“Vorrei ma non POST(o)”. Introduco i
Lost In Kiev con questa (agghiacciante, mi rendo conto) citazione di
Fedez perché mi sembra comunque azzeccata.
Cominciamo con gli aspetti positivi: la proposta interamente (o quasi) strumentale della band ha dalla sua dei suoni caldi e corposi e dei rimandi interni che facilitano l’ascolto di un full-length comunque molto sfaccettato. Cosa non va, invece? Come tutti i dischi siffatti soffre un po’ della “sindrome del fritto” risultando soporifero a tratti e non sempre facile da assimilare.
Si parte bene con la lunga
“Narcosis”: il drone iniziale di natura sintetica, le timbriche di matrice black-ambient, le parti narrate e recitate, l’equilibrio delle chitarre e l’assalto finale dal sapore marziale fanno ben sperare per le tracce successive.
“Insomnia” è una versione più rarefatta, sperimentale, ma comunque melodica della prima traccia, e anticipa la meno elaborata
“Mirrors”, che ha qualcosa del Vangelis degli Anni Ottanta. La titletrack si sporca di noise/grunge e mostra i primi segni di stanca, soprattutto nelle armonie, così come la morbida e romantica
“Somnipathy”. La breve e avvolgente
“Catalepsy” prelude a
“Resilience”, brano deciso, djent quanto basta nell’intonazione “ballerina” delle chitarre e dall’interludio dal carattere sorprendentemente western (sì, avete letto bene).
“Celestial” è il momento spacey dell’album, prima della conclusiva e progressiva
“Emersion”, grooveggiante e ben costruita (peccato per il terribile “coretto da stadio” in coda).
Forse non sono la persona più indicata per valutare un disco post rock, ma penso di saper riconoscere lavori più o meno convincenti.
“Nuit Noire” non può non rientrare nella prima categoria, di questo sono certo, così come sono certo che i più avvezzi a certe sonorità troveranno la mia valutazione troppo penalizzante. A questi ultimi chiedo anticipatamente scusa…
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