Un buon tiro, qualche buona melodia ed alcuni riffs indovinati, ma ben poco di più per i debuttanti Majestic Vanguard, gruppo svedese che se su un piatto della bilancia mette in mostra un buon cantante ed un discreto affiatamento, dall'altro lato piazza sonorità tanto derivative e così poco personali da impedire a questa bilancia virtuale di pendere a proprio favore.
Se ci poi ci mettiamo anche la noia che talvolta emerge da alcuni brani (come nel caso di "Mystic Eye") le cose si fanno ancora più difficili. Meno male che ci sono pezzi offrono maggiori spunti d'interesse, come avviene per la dinamica "Emotions Of A Picture" (tra gli Stratovarius ed i Kamelot), per "Beyond The Moon" dove Johan Abelson si propone in alcuni fraseggi di flamenco o con le tastiere fluide ed ammiccanti di Samuel Fredén nel corso di "Tears In Neverland". Eppure, come già detto, non sempre tutto fila liscio, l'attenzione tende a calare ed il gruppo a riciclar(e)si.
L'arpeggio di "The Angels Dance" segna la metà del disco, e prelude alla ballad elettrica, ma tutto sommato trascurabile, "Don't Want To Be An Actor". Anche "Take Me Home" parte lenta, con il cantato delicato di Peter Sigfridsson, ma la quiete dura poco: la ritmica spinge ed i ritmi si alzano, il refrain si fa poweroso (un po' alla Freedom Call), e spunta un bell'assolo del davvero bravo Abelson, ed il tutto contribuisce a trasformarlo nell'episodio più vivace e uno dei più azzeccati del disco. Ma potevano (e probabilmente potranno) dare di più.
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