Death melodico? Mah. Progressive? Talvolta. Black sinfonico? Può capitare. Metalcore? Quanto basta. Alternative? Probabilmente sì.
Apprezzo sempre i gruppi coraggiosi che provano a cercare nuove contaminazioni e a far parte di quel calderone che alcuni chiamano
“modern metal”, non sapendo più che aggettivo mettere davanti al nome del nostro genere preferito. I
Damnation Plan, però, dal mio punto di vista sono a dir poco disorientanti.
Lungi da me voler “categorizzare” tutto, ma in un’epoca in cui i dischi non si vendono (ma paradossalmente ne escono sempre di più), i locali dove suonare chiudono o cambiano pelle (recente è la triste vicenda del
Circolo Colony di Brescia), e la fruizione della musica è sempre più “liquida” (i supporti fisici, purtroppo, hanno i giorni contati), qual è lo scopo di questi 50 minuti di musica così variegata? Vi lascio con questa domanda, per la quale sicuramente esiste una risposta, ed entro nel merito…
L’introduttiva
“Intro” è rocciosa, e sfocia in
“Beyond These Walls”, un assalto frontale a cavallo tra prog e metalcore impreziosito da ottime tastiere in penombra e da un ritornello ultra-melodico.
“Rulers Of Truth” è un’altra bordata dalle tinte orientali più vicina a sonorità heavy/power tradizionali, con un break in growl un po’ forzato che però lancia i bei soli della coppia
Lauri/Niininen. I toni non si smorzano neanche con
“Rise Of The Messenger”, che rimanda a una versione nordica e più melodica degli ultimi Periphery. La più lineare
“Blinded Faith”, costruita su un solido riff da headbanging, prelude al breve interludio strumentale
“The Empowerment”, cui attacca immediatamente
“Maze Of Despair”, una specie di power-ballad dal piglio sinfonico.
“Iron Curtain Falls” è “estrema con moderazione”, vicina al black sinfonico di Dimmu Borgir e Cradle Of Filth, in totale contrasto con la successiva title-track, ancora saldamente ancorata al metalcore dalle aperture melodiche. La narrata
“A Chapter In Greed” anticipa l’ottima
“The Final Destination”, brano lungo e sfaccettato, molto cinematografico e progressivo nelle intenzioni, ma anche indiscutibilmente grooveggiante. Giusto per stupire fino alla fine, la band in coda ci regala una discreta cover di
“Don’t Talk To Strangers” dei Dio (?!?!).
Difficile sintetizzare quello che penso in un numero, com’è vero che quello che penso non è necessariamente giusto in assoluto. Per cui diamo "a Cesare quel che è di Cesare" e premiamo questo
“Reality Illusion”, che non so immaginare che tipo di seguito possa avere ma che non ha certo paura di osare.
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