Oh, niente da fare: avrò abbozzato una dozzina di
incipit, ma le mie mediocri doti letterarie non mi hanno permesso di concepire nulla che mi garbasse quanto quello della
press release.
Onore al merito… ed ecco a Voi:
“
Immaginate questa scena: Django di Tarantino sacrifica una capra sul palco mentre, da dietro, intimidatori canti di schiavi tuonano, e stridenti riff di chitarra ardono. Poi una catena tintinna, evocando un’assemblea satanica, e si fa strada attraverso le melodie stranamente familiari del black metal norvegese”.
Ebbene, se un domani il buon
Quentin dovesse invaghirsi di una simile, balzana idea, e decidesse di farne un film, avrebbe già pronta la colonna sonora.
Grazie alla fervida immaginazione dello svizzero-americano
Manuel Gagneux, mastermind del progetto
Zeal and Ardor, possiamo infatti aggiornare l’elenco delle commistioni musicali improbabili. Da oggi andrà ricompreso nel novero l’impuro matrimonio
gospel e
black metal.
Improbabile sì, ma tutt’altro che inefficace alle orecchie del sottoscritto. A dispetto di un approccio non scevro da diffidenze, mi sono lasciato ben presto affascinare da una miscela ancora perfettibile, eppur già oggi in grado di rappresentare un refolo di aria fresca in un panorama, quello del metal estremo, sempre più afflitto da raffiche di uscite superflue.
La sovrapposizione dei due generi, quantomeno negli episodi più significativi (la
title-track, “
Come on Down” e “
Blood in the River”, con ogni probabilità la mia favorita) funziona a meraviglia e non suona affatto forzata, oltre a possedere una carica evocativa non indifferente.
D’altra parte non capita spesso di vedersi teletrasportati, nel giro di pochi istanti, da un campo di cotone della
Louisiana bruciato dai raggi del sole ad una foresta norvegese illuminata da una pallida luna…
Purtroppo, ottimi brani come quelli ora citati condividono il proscenio con altri meno positivi. Ad esempio, ho trovato piuttosto fine a se stesso il trittico “
Sacrilegium” I, II e III, composto da episodi slegati dal contesto -parliamo di due strumentali e di un delirio
dub/muezzin- che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto accordare varietà e respiro alla
tracklist. Nella realtà, invece, finisce per sfilacciare l’ordito di un’opera che, vista l’esigua durata, non abbisognava affatto di diversivi.
“
Devil Is Fine”, in ultima analisi, può venir inquadrato come trampolino di lancio per una creatura sonora cui vanno riconosciuti evidenti crismi di originalità, ampi margini di miglioramento e, perché no, discrete velleità commerciali.
I puristi del
black primigenio evitino gli
Zeal and Ardor come la peste polmonare; ai lettori più curiosi e “fighetti” -spero perdonerete l’utilizzo dell’orrido vocabolo-, invece, consiglio senz’altro un ascolto.
Quentin, da ultimo, ci faccia un pensierino: potrebbe uscirne un filmone.
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