Conclusa l’epopea
hippie degli anni sessanta, con il suo carico di utopie e contraddizioni, i
seventies videro un sacco di
bands perfezionare il proprio approccio ai suoni della tradizione.
Così, se da un lato trionfavano i Led Zeppelin, i Free e gli Humble Pie (sulla spinta dei Bluesbreakers di
John Mayall), ponendo le basi per l’
hard rock, in stati come Georgia, Louisiana, Alabama e South Carolina nasceva e proliferava “
il suono del sud”, sostenuto da gruppi come The Allman Brothers Band, Lynyrd Skynyrd, Outlaws, The Marshall Tucker Band ecc., capaci di mescolare
rhythm n’ blues,
folk,
gospel e
soul e celebrare attraverso una modalità artistica peculiare e distintiva l’orgoglio delle proprie “radici”.
Una “roba”, insomma, che probabilmente chi è venuto al mondo da quelle parti ha ancora oggi stampato nel
DNA e che invece è un po’ più difficile da padroneggiare se, per esempio, le tue origini risiedono in una facoltosa regione dell’Italia settentrionale.
Eppure basta ascoltare “
Promised land”, secondo parto discografico degli
Smokey Fingers, per rendersi conto una volta di più che quando c’è una sincera “attitudine” le origini geografiche passano decisamente in secondo piano, fatalmente sconfitte da uno spirito forgiato nell’ispirazione, nel sentimento e nel talento.
E allora se cercate un albo che sprigiona inebrianti aromi sudisti, propugnatore e perpetuatore di qualcosa che evidentemente è troppo “vero” per estinguersi col tempo, questo lavoro appare la scelta migliore per soddisfare le vostre primarie esigenze d’ascolto.
Del resto, delle virtù immarcescibili di questi suoni ne sanno qualcosa anche The Temperance Movement, Blackberry Smoke, Drive-By Truckers, Sister Hazel e Kid Rock, tutta gente che ha seguito le orme dei “padri” e le ha restituite a un pubblico spesso infatuato dalle “novità” del momento e che poi altrettanto di frequente è ritornato ad interessarsi alla storia del
rock.
In epoche di diffuso riciclaggio come la nostra, la discriminante è trovare i gruppi che suonano con freschezza, autenticità e personalità, proprio come accade a questi valenti
southern-rockers di Lodi, abilissimi nello scrivere e interpretare belle canzoni, senza inventare nulla e trasmettendo all’astante tutta la loro genuina passionalità.
La voce graffiante e pastosa di
Gianluca “Luke” Paterniti rappresenta il classico “valore aggiunto” di un percorso sonico privo di sbavature e che si dipana tra le spigliatezze di “
Black Madame”, “
Damage is done” e “
Floorwashing machine man”, il
feeling tangibile di “
Rattlesnake train” e l’indole pigra della vagabonda “
The road is my home” e dell’elegiaca “
No more”.
Al suggestivo quadretto non mancano nemmeno il
groove denso e scalciante di “
The basement” (con un grande fraseggio di
slide-guitar), le vivaci ambientazioni
country di “
Last train” e la grinta di “
Stage” (pezzo davvero di categoria “superiore”, nobilitato da un
refrain irresistibile), “
Turn it up”, “
Thunderstorm” e della “confederata” “
Proud & rebel”.
C’è un che di “sacrale” in questa musica, e quando è suonata con la giusta vocazione non stanca mai e regala emozioni a ogni contatto … disco e gruppo da sostenere senza remore.
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