Fra gli spauracchi in grado di levare il sonno ad artisti di ogni campo ed estrazione, uno dei più perniciosi è senz’altro il “
sequel”.
Le statistiche, ahimè, parlan chiaro: a fronte di sparuti esempi positivi (così, a braccio, mi sovvengono “
Il Padrino – Parte II”, il “
Keeper of the Seven Keys – Part II” ed il secondo tomo di “
Don Chisciotte”), ci troviamo di fronte ad una sterminata messe di opere incapaci di reggere il confronto con quelle prime.
Ma gli
Anathema, storicamente inclini alla sfida, hanno deciso di impiparsene dei precedenti negativi, confezionando così, a distanza di ben sedici anni, un successore di “
A Fine Day to Exit”.
Bel rischio: parliamo di un capostipite glorioso, che aveva traghettato gli inglesi verso nuovi lidi musicali e che, ai tempi dell’università, avevo ascoltato sino allo sfinimento.
Oltre a ciò, sui Nostri incombeva l’ulteriore, gravoso compito di superare il momento di empasse dimostrato col precedente “
Distant Satellites”, disco che riproponeva gli stilemi compositivi dello splendido “
Weather System” senza raggiungerne le vette espressive o qualitative.
Premesse tutt’altro che semplici da cui iniziare, vero?
Verissimo, ma vi posso assicurare che anche il compito del povero recensore di turno non è tra i più agevoli: l’intima essenza di questo “
The Optimist”, infatti, continua ad apparirmi elusiva e refrattaria, nonostante gli svariati (e attenti) passaggi nello stereo.
Quasi a voler sfuggire dalle sfide sopra enunciate, il neonato della famiglia
Anathema dimostra da subito un atteggiamento umbratile ed introverso.
Le difficoltà ad inquadrare il
full length dal corretto angolo prospettico insorgono sin dall’impianto lirico: ci troviamo infatti di fronte ad un “
concept / non concept” –come dichiarato dallo stesso
Daniel Cavanagh in occasione della
bella intervista realizzata dal nostro
Gab-, per mezzo del quale osserviamo le peregrinazioni ed apprendiamo i dilemmi interiori del medesimo protagonista fittizio presente in “
A Fine Day to Exit”.
Il che, per quanto mi riguarda, delinea perfettamente i tratti di un
concept album, ma non mi sembra il caso di impuntarsi…
Musicalmente parlando, se possibile, la matassa è ancor più ardua da dipanare.
“
The Optimist”, si badi, sprizza
Anathema da ogni poro, e non potrebbe esser stato composto da nessun altro gruppo al mondo; al tempo stesso, gli elementi distintivi della compagine di
Liverpool subiscono in questa sede una evidente rielaborazione, il che conduce a risultati, se non sconvolgenti, quantomeno sorprendenti.
Il platter, ad esempio, mette in mostra una rinnovata vigoria: laddove i proverbiali crescendo culminavano nella glorificazione della melodia portante attraverso un arrangiamento orchestrale, ora sfociano piuttosto in lividi sfoghi strumentali, nei quali sono chitarra elettrica e batteria a dettare legge.
Proprio questi accessi d’ira, preziosi per movimentare l’ascolto ed ampliare lo spettro emotivo dipanato dalla
tracklist (oltre che funzionali alla “trama”, poiché sottolineano i tormenti del protagonista narratore), segnano il principale punto di discontinuità col morbido predecessore.
Con ciò non s’intende affatto postulare che le digressioni più riflessive ed intimiste abbiano abbandonato questi lidi.
Tutto il contrario, in realtà: in “
The Optimist” l’angelica ugola di
Lee Douglas e –soprattutto- il pianoforte di
Danny imperversano, abbigliando brani come “
Endless Ways” o “
Ghosts” con vesti eteree e sognanti.
Non mancano, da ultimo, colpi di scena e chicche assortite: penso allo spiazzante finale da fumoso
jazz club di “
Close Your Eyes”, al feeling ipnotico dipanato dall’incipit di “
Wildfires” o alla strumentale “
San Francisco”, brano “da colonna sonora” che mi ha ricordato alcune composizioni di
Yōko Shimomura (“
Kingdom Hearts” in particolare, se mi passate il nerdismo).
Cotante sfaccettature del sound, come scritto in precedenza, conferiscono all’album pelle coriacea e carattere scorbutico: si concederà un po’ alla volta, e solo ad alcuni di voi.
I meno pazienti, con ogni probabilità, finiranno per irretirsi di fronte all’assenza di quel crescendo da pelle d’oca, di quella linea vocale che fa scendere la lacrimuccia, di quel
chorus che apre uno squarcio di malinconia nel petto cui gli
Anathema ci avevano abituati sin dal primo ascolto.
Per quanto mi riguarda, sento che con “
The Optimist” stiamo pian piano iniziando a capirci, e posso pertanto supporre che quel voto a margine, con lo scorrere delle settimane, sia destinato ad aumentare.
D’altra parte ad oggi non me la sento, in piena onestà intellettuale e nonostante l’amore spassionato che mi lega a questo gruppo, di spingermi più in là di così.
Nel contempo, sarebbe ingeneroso limitarsi ad accatastare l’album nel mesto scaffale dei
sequel non all’altezza delle opere prime.
Seppur inferiore rispetto a “
A Fine Day to Exit”, infatti, “
The Optimist” possiede diversi spunti di estremo interesse, e rifulge comunque di una luce che solo le grandi band sono in grado di irradiare.