Conclusa l'esperienza con i Beardfish, l'instancabile svedese
Rikard Sjöblom (ora in forza anche ai britannici Big Big Train) ha trovato pure il tempo di "riesumare" il suo progetto solista
Gungfly (parola che in svedese significa "terreno non sicuro"), ormai fermo dal 2011.
I musicisti che lo accompagnano sono gli stessi del recente
"The Unbendable Sleep", così come la direzione stilistica a cui ormai da anni ci ha abituato l'artista.
Che da piccolo il buon
Rikard abbia ingurgitato dosi massicce di prog europeo "nobile" è cosa nota, così com'è noto il suo inconfondibile "marchio di fabbrica" che non manca nemmeno al qui presente
"On Her Journey To The Sun" e che, personalmente, non mi ha mai impressionato (troppe le citazioni "spudorate").
"Of The Orb" mette subito in chiaro le cose con la chitarra 12 corde in primo piano e con il cantante che intona
"...for the cinema show...". Olé. I ritornelli sono un po' più pop, è vero, ma fino al break strumentale (un po' Yes, un po'
Oldfield) sembra davvero di sentire
Peter Gabriel e compagni. La titletrack è più interessante e originale, grazie ai vaghi connotati Sixties e alla performance maiuscola di
Sjöblom. Quello di
"He Held An Axe" è l'immaginario pinkfloydiano più soft filtrato attraverso la sensibilità dell'artista di Backa (sarà un caso il riferimento all'ascia?) mentre
"My Hero" sembra venir fuori direttamente da
"Relayer" degli Yes (pure l'intermezzo dal carattere esotico sembra suonato da
Patrick Moraz in persona). La breve ed enigmatica
"If You Fall" (bucolica ma soul) anticipa il tour-de-force strumentale
"Polymixia", che saccheggia in parti uguali il catalogo di Yes, King Crimson, Gentle Giant, Genesis ed ELP. Complimenti davvero.
"Over My Eyes", con pianoforte e archi, è un altro brano meno derivativo e più riuscito, tanto struggente quanto ballabile, e fa il paio con
"Old Demons Die Hard", dove una melodia di harrisoniana memoria si staglia su un arrangiamento retro-progressivo dal sapore italiano (io ci ho sentito la PFM). Anche
"Keith" funziona, essendo un episodio meno tecnico e più atmosferico, con il chitarrismo vicino allo stile di
Pat Metheny, ma non si può dire lo stesso di
"The River Of Sadness", dodici minuti davvero troppo densi con cantati AOR, prog, fisarmonica, elettronica ayreoniana e chi più ne ha più ne metta. Chiude il full-length l'inspiegabile
"All A Dream", due minuti di pianoforte e voce narrante a metà strada tra cinema e teatro. Mah.
C'è da riconoscere che nonostante la tanta carne al fuoco,
"On Her Journey To The Sun" tutto sommato scorre bene. Si può discutere sulla mole complessiva dell'opera (74 minuti) ma la vera domanda senza risposta è una sola: c'era davvero bisogno di
un altro disco così?
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