1985. Esce “
Fighting for the world” dei Warrior, un autentico “classico di culto” del panorama
heavy metal.
1989.
Steve Stevens, forte dei successi con
Billy Idol e di un
Grammy per la colonna sonora di “
Top gun”, sotto la singolare denominazione collettiva Atomic Playboys (ispirata a un discorso del Vice Ammiraglio
Blandy, coordinatore dei test nucleari effettuati sull'atollo di
Bikini ...) sforna un disco omonimo di enorme efficacia, un esempio di
hard-rock “futuristico” al tempo stesso commerciale e progredito.
Comune denominatore delle due diversamente appaganti situazioni artistiche è la stentorea voce di
Parramore McCarty e se oggi nel 2017 ritroviamo il
singer americano in una nuova avventura siglata
Radiation Romeos (
monicker con evidenti richiami ai
Playboys, tra l’altro …) appare chiaro quante aspettative si possano annidare nei sentimenti degli estimatori dei suoi suddetti precedenti artistici.
E allora diciamo subito che “
Radiation Romeos” non è un “capolavoro” e che difficilmente troverà un posto di riguardo negli annali della musica
rock, mentre possiamo tranquillamente annoverarlo tra le opere di apprezzabile valore, egregiamente eseguite e composte, sebbene non particolarmente sorprendenti nei contenuti.
Prodotto con la consueta perizia dal celebre
Michael Voss, il disco si offre al giudizio del pubblico fornito di una sufficiente dose d’eclettismo stilistico, che si concretizza in una forma di
hard n’ heavy piuttosto godibile, capace di spaziare con estrema disinvoltura dalle melodie adescanti della
title-track e di “
Ocean drive” alle atmosfere “epiche” di “
Promised land” e “
Castaways”, tentando, così, e con discreti risultati, di compiacere in qualche modo le “reminiscenze” di chi ha adorato (e ama tuttora) sia Atomic Playboys e sia Warrior.
L’impeto
sleazy di “
Bad bad company” supera gli effetti deleteri del
déjà entendu grazie ad una sferzante energia, “
Mystic mountain” graffia senza lasciare segni troppo profondi e
“Like an arrow” ossequia con gusto le caratteristiche
standard della
power ballad.
Il clima
western di “
Ghost town” appare posticcio e poco efficace, “
Til the end of time” risolleva le sorti del programma grazie ad una graziosa struttura armonica e anche “
On the tight rope” e, soprattutto, “
Monstertraxx” contribuiscono a rianimare il
platter, stavolta inoculando nelle sue fibre sonore ficcanti e nerborute cadenze
hard-rock.
Due considerazioni, infine, sui “singoli”, partendo ovviamente da
McCarty, meno “esplosivo” che in passato e tuttavia sempre all’altezza della situazione, per poi approdare, dopo un plauso alla funzionale sezione ritmica
Spittka /
Homann, alla chitarra di
Dag Heyne, di certo abbastanza lontana dall’estro di quella di
Stevens eppure artefice di una buona prova complessiva.
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