Storia abbastanza particolare quella dei
Riverdogs … nati verso la fine del 1988 e caratterizzati da un iniziale turbinio di cambi di
line-up, cominciano ad assumere un profilo consistente quando nella
band entra
Vivian Campbell, in un primo momento contattato solamente per produrre l’albo d’esordio del gruppo.
Viv era appena uscito dai Whitesnake e libero dalle “pressioni dorate” a cui era stato sottoposto in quella prestigiosa situazione, sentiva il bisogno di dimostrare le sue qualità come artista in un progetto a cui poter concedere il massimo livello di coinvolgimento.
Con il contributo di
Rob Lamothe,
Nick Brophy e del s
ession drummer Mike Baird esce nel 1990 “
Riverdogs”, uno di quei dischi capaci di donare vitalità all’
hard-rock blues, ancora oggi da considerare, almeno per quanto mi riguarda, tra i capisaldi del genere.
La parabola dei
Riverdogs a questo punto assume contorni simili a quelli di molte altre formazioni coeve … un secondo lavoro di ottimo livello, passato inosservato (“
Bone”, del 1993, privo dell’apporto dell’attuale chitarrista di Def Leppard e Last In Line), un primo timido tentativo di ritorno (“
World gone mad”, 2011) e poi, dopo un altro periodo di silenzio, finalmente l’annuncio di un nuovo
full-length, che riaccende inevitabilmente le speranze di chi con la musica di questi ragazzi ha trascorso momenti indimenticabili.
“
California”, lo diciamo subito a scanso di fraintendimenti, è un disco splendido, degno di essere comparato con il passato più glorioso dei nostri, un’opera in cui l’
hard-rock screziato di
blues si rivela ancora una volta una materia per nulla nostalgica, a meno che non si voglia attribuire tale definizione all’emozione
cardio-uditiva più profonda e autentica.
La voce di
Lamothe avvolge come quella di un giovane
Coverdale infatuato dai registri di
Chris Cornell (
R.I.P.), la chitarra di
Campbell seduce con raffinatezza e colpisce con intensità, privilegiando il buongusto esecutivo agli eccessi di protagonismo, mentre i tamburi di
Marc Danzeisen (ormai da lungo tempo membro effettivo della
band) pulsano all’unisono con il basso di
Brophy, importante anche per il suo prezioso sussidio vocale e tastieristico.
Il resto lo fa un
songwriting ricco di melodie evocative e di bordate imperiose di
feeling, per un programma che parte un po’ in “sordina” con l’ammiccante “
American dream” e che grazie alla suggestiva atmosfera vagamente Thin Lizzy-
ana di “
The revolution starts tonight” comincia a fare veramente “sul serio”.
Da qui in avanti è praticamente impossibile stilare classifiche di merito … vi troverete a “
camminare nell’ombra del blues” con “
Something inside” e sentirete i vostri sensi vibrare di fronte alla tensione intimista di “
Golden glow”, al giro ipnotico dal tocco “attualizzato” di “
You’re too rock n roll” e al
climax di “
The heart is a mindless bird”, gratificato da un incantevole tocco psichedelico.
“
Searching for a signal” mostra il lato più energico della formazione, “
Welcome to the new disaster” riprende a inebriare con un emozionante clima notturno e sinuoso, lo stesso che avvolge i sussulti di “
Ten thousand reasons” e le armonie di “
Catalina”, assai gradevoli nonostante un pizzico di manierismo.
Alle delicate e ammalianti note di “
Don’t know anything” è infine affidato il compito di interrompere la magia di un ascolto che si ha subito la necessità “fisica” di ripetere.
I
Riverdogs riescono nell’impresa di trasferire i dogmi di un genere “conservatore” direttamente nel terzo millennio, ostentando talento, freschezza e un’enorme ispirazione … ora speriamo che la diffusa superficialità e l’indifferenza del
rockrama contemporaneo (magari assieme agli impegni di
Campbell …) non finiscano per farli sparire un’altra volta … equivarrebbe alla reiterazione di un “delitto” davvero difficile da accettare.