Ho ascoltato e riascoltato il nuovo disco dei
Leprous decine di volte e alla fine credo che abbia ragione il buon
Baard:
“Malina” non è un disco metal, almeno non nella sua accezione più comune. Qui non ci sono
“ritmi fortemente aggressivi, suoni potenti ottenuti attraverso l’enfatizzazione dell’amplificazione e della distorsione delle chitarre, dei bassi o delle voci” (cit. Wikipedia). E
Baard ha ancora più ragione quando alla domanda sul rapporto tra
Leprous e metal
risponde una cosa del tipo “machittesen***a!”, solo in maniera molto meno scurrile.
“Malina” è un disco strepitoso, coraggioso, riuscito, e per tutti questi motivi "facile" da sostenere. E pazienza se il gain delle chitarre è più basso del solito, se le sfuriate di doppia cassa non ci sono o se la voce predilige i registri da usignolo ai latrati cavernicoli dei frontman - se di uomini si tratta - delle vostre band preferite. In
“Malina” tutto respira, dalla batteria - mai così naturale - al basso spaventosamente definito e “bello”, dalle timbriche ardite delle chitarre al violoncello dell’ospite
Raphael Weinroth-Browne.
L’inizio è in sordina:
“Bonneville” gode di cori minimali di scuola Pain Of Salvation, di un lavoro di cesello magistrale di
Kolstad dietro alle pelli e del falsetto affilato di
Einar che - ammettiamolo - ricorda
Matt Bellamy.
“Stuck” e
“From The Flame” le avevamo già sentite, e sono senza dubbio tracce ruffiane ma efficaci: la prima è arrangiata in maniera impeccabile, e serba una bella sorpresa nel finale che intreccia elettronica e sonorità sinfoniche/drammatiche, mentre la seconda gioca sul contrasto tra le linee vocali di facile presa e le tessiture strumentali più articolate e groovy.
“Captive” e
“Illuminate”, con i loro incastri ritmici, rimandano al recente passato (
“The Congregation” su tutti), e sfociano in una seconda metà di full-length più sperimentale e ancor meno prevedibile.
“Leashes” è una pseudo-ballad sporcata di djent e di orchestrazioni, e fa il paio con
“Mirage”, dove sono i sintetizzatori di
Einar a emergere, pur conservando un indiscutibile impatto rock, soprattutto nella coda concitata. La titletrack è sostenuta da un perfetto equilibrio di contrappunti tra il basso, il violoncello, il Rhodes e le poliritmie di
Baard, prima della nervosa e stroboscopica
“Coma”, probabilmente l’episodio più heavy del lotto.
“The Weight Of Disaster” spicca per i saliscendi dinamici e per la fluidità della scrittura, e prelude a un gioiello intitolato
“The Last Milestone”, in cui
Solberg viene lasciato solo con l’orchestra d’archi - ricreata con più sovraincisioni dal solo
Weinroth-Browne - che rievoca con eleganza ed epicità compositori nobili come
Bernard Herrmann e
Charles Ives. Da brividi.
Prog? Alternative? Boh. Questo si potrebbe definire “metal 2.0”. Convincerà tutti? Sicuramente no, ma qui il voto lo do io, per cui portate pazienza.