Neanche 12 mesi e gli YOB, ancora freschi del prestigioso contratto targato Metal Blade, ritornano con un nuovo album, il quarto in carriera, e diretto successore di The Illusion Of Motion, col quale la band dell'Oregon ha sicuramente raggiunto l'interesse di una maggior schiera di amanti del Doom più estremo e ipnotico. Come avvicinarsi ad un disco degli YOB è una pratica già conosciuta dagli amanti della band e riassumibile in poche parole per i neofiti: isolamento, concentrazione e totale trasporto e immersione nello scenario mentale disegnato dai 3 profeti di quello che oserei definire senza timori "Spiritual Doom". Allineato sulla scia del suo predecessore, il nuovo lavoro intitolato The Unreal Never Lived si presenta di nuovo composto di soli 4 episodi che riprendono là dove il discorso era stato interrotto con il suo predecessore, continuando con la stessa enfasi e la stessa monolitica pesantezza che caratterizza questa seconda fase artistica della band. Ormai totalmente abbandonate le divagazioni heavy rock e psichedeliche dei primi due lavori, il nuovo cammino degli YOB si consolida sul terreno dell'extreme doom con una particolare attenzione alla creazione di atmosfere visionarie e trascendenti. Il nuovo prodotto si presenta sostanzialmente permeato di una diversa aurea rispetto al suo esimio predecessore, caratterizzato da una maggior spiritualità e ricerca intimistica, un viaggio ancora più etereo guidato da una ricerca sempre minimalista, per quel che riguarda la struttura ritmica delle chitarre, e invece ancor più perfezionata nella parte solistica e nei cambi di tempo particolarmente esemplificati nell'iniziale, e a tratti sperimentale, "Quantum Mystic". Il discorso voce si mantiene quasi inalterato, dove la grazia e la dirompente violenza del doppio registro, pulito/growl, di Mike si conferma come uno dei punti di forza del nuovo sound degli YOB, in questo album affiancato per la prima volta da alcuni screams del bassista Isamu Sato, decisamente all'altezza della situazione. Il tasso ipnotico e trascinante delle parti pulite, degli arpeggi e delle appena accennate e sussurrate lead di chitarra si bilancia sapientemente con l'irruenza dei trascinati riff monocorda di natura drone, cavernosi ruggiti del sottosuolo, sui quali si posa la voce gutturale e la estenuante lentezza della batteria, grandiosa nell'uso dei piatti, del pesantissimo Travis Foster. Su queste coordinate estreme si muovono sostanzialmente i due episodi centrali, "Grasping Air" e "Kosmos", per arrivare nel finale alla stupenda "The Mental Tyrant", episodio dal sapore diverso, più arioso e quasi liberatorio dopo il devastante viaggio compiuto durante l'ascolto del resto del disco. Melodie più soffuse, distese e ancor più mistiche fanno di questa canzone qualcosa di assolutamente unico nella sua bellezza e ispirazione e nella quale è possibile trovare svariate influenze, fino ad un finale nel quale fanno la loro comparsa addirittura dei didjeridoo, evidente debito nei confronti dell'oriente e della sua cultura da parte di questa formazione. Nuovamente gli YOB centrano il risultato, senza stravolgere la propria ricetta ma conferendo un grado di spiritualità alla propria musica mai raggiunto in precedenza, avvicinandosi con successo ad un prodotto artistico sempre più totale e completo, non solo dal punto di vista musicale.
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