Inutile girarci intorno. Come temevo, l'unico vero limite del nuovo album marchiato
Threshold è il ritorno dell'ex
Glynn Morgan. Ecco l'ho detto.
Posso capire una certa "emozione" da parte dei fan di lunga data della band, ma ascoltate per benino
"Legends Of The Shires", magari in cuffia, e arriverete alle mie stesse conclusioni, ne sono certo.
Morgan - che avrà anche un timbro più ruvido del vecchio
Damian Wilson - non ha un decimo della sua potenza, del suo calore e della sua precisione/intonazione (sì, pure quella).
Mandata giù questa amara notizia è oggettivamente facile constatare il buono stato di salute di
Karl Groom e soci, che questa volta hanno optato per un doppio concept album dai contorni sfumati (queste le parole della band:
“ [...] a concept album about a nation trying to find its place in the world. It could also be about a person trying to do much the same thing.”).
"The Shire (Part 1)" è bucolica e vicina al new-prog, e prelude alla più diretta
"Small Dark Lines", traccia heavy e melodica che rimanda alle composizioni di
"Subsurface". La prima mini-suite
"The Man Who Saw Through Time" spicca per l'intermezzo strumentale e per la coda epica e sinfonica, mentre
"Trust The Process" rimanda alla scuola prog metal americana, nonostante le sfumature elettroniche e un chorus che non avrebbe sfigurato in un disco degli Asia.
"Stars And Satellites" è un gioiellino (purtroppo interpretato così così da
Morgan), e contrasta con
"On The Edge", pestata, sinistra e teatrale alla maniera dei Vanden Plas. La seconda parte di
"The Shire" - ruffiana ma riuscita - sfocia nella dinamica ed equilibrata
"Snowblind", che riecheggia ancora gli anni della band alla
InsideOut.
"Subliminal Freeways" è il brano più sottotono del lotto, e anticipa la breve power ballad
"State Of Independence", fortemente radicata negli Anni Ottanta.
"Superior Machine" è il tipico "brano alla
Threshold", sentito mille volte ma sempre efficace e tiroso, prima della terza e ultima parte di
"The Shire", con il pianoforte di
Richard West protagonista.
"Lost In Translation" l'avevamo già sentita, e rimane nel cuore per i suoi dieci minuti magniloquenti e melodrammatici che attraversano 40 anni di prog inglese con una scorrevolezza invidiabile. La chiusura (
"Swallowed") è adeguata - ma forse un po' troppo canonica - orecchiabile e appassionata senza essere prolissa.
Resto convinto che album come
"Critical Mass" o
"March Of Progress" fossero di ben altra fattura, ma ci si può sicuramente accontentare.