L'ultra-anticipato
"Psychotic Symphony" ha dalla sua almeno due pregi: dice tutto quello che ha da dire - pure di più - in poco meno di un'ora, ed è l'autoritratto fedele delle cinque personalità coinvolte nell'operazione, tanto riconoscibili quando imbracciano i propri strumenti quanto spavalde, eccessive e con una gran voglia di dimostrare al mondo che loro "cadono sempre in piedi" anche se li si butta fuori da band di successo blasonate e redditizie
(chi ha orecchie per intendere intenda, ndr).
Ora passiamo ai difetti...
L'attacco di
"God Of The Sun" parla da sé, una fiera della tamarraggine a base di tuoni, sitar, bassi profondi e gli immancabili synth perforanti di
Sherinian prima dell'irruzione dell'onnipresente
Mike Portnoy.
Ron Thal se ne sta buono buono fino alla ripresa - dopo un break scontato e discutibile - ed è allora che capiamo che, insieme a
Jeff Scott Soto, è lui il vero valore aggiunto di questo ennesimo supergruppo.
"Coming Home" è una traccia che più scolastica non si può, a mio avviso nata in sala prove in mezz'ora al massimo, un ibrido Who/Metallica capace di mettere insieme il peggio di entrambi.
"Signs Of The Time" prende spunto da esperienze heavy più recenti (penso ai Korn), e, nonostante
Bumblefoot ce la metta tutta per rendere il brano interessante, si scontra con la totale mancanza di sorprese sul fronte compositivo.
"Labyrinth" è il primo vero episodio "originale" del lotto, curato nell'arrangiamento, progressive ma equilibrato (qualcosa a metà si poteva cavare via ma pazienza), talmente equilibrato che finalmente sentiamo pure il basso di
Billy Sheehan.
"Alive" è un filler dai toni hard rock/mainstream alla Alter Bridge che anticipa la snella e carica
"Lost In Oblivion", con
Soto a suo agio nei panni del rocker
tout-court. Il minuto di gloria di
Derek Sherinian di
"Figaro's Whore" introduce
"Divine Addiction", dove i riferimenti a
"Perfect Strangers" e ai Deep Purple in genere sono inequivocabili (c'è pure la coda in fade, cribbio). Il finale è lasciato a una lunga traccia strumentale dai toni epici intitolata
"Opus Maximus" (ma "opus" non era neutro? ndr) che spesso pecca di autoindulgenza, ma che allo stesso tempo dimostra un minimo sforzo creativo che è stato latitante per la maggior parte del full-length.
C'è chi obietterà che i
Sons Of Apollo hanno fatto proprio quello che ci si aspettava da loro. Io, francamente, avrei voluto sentire qualcosa di più...
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