Che cosa accadrebbe se le
Desert Sessions invece che al
Rancho da la Luna si svolgessero a Barletta, non lontano dalla frazione di
Canne (sito archeologico ricordato per la storica battaglia vinta da
Annibale …), la cui denominazione appare in qualche modo congeniale ai dogmi che, nell’immaginario collettivo, sono insiti al cosiddetto
stoner-rock? Immagino qualcosa di molto simile a quanto sto per illustrarvi.
Ok, non ho resistito a introdurre questo lavoro dei pugliesi
Rainbow Bridge attraverso questa maldestra e innocua facezia, ma spero mi perdoneranno lettori e diretti interessati, anche perché qui la faccenda è in realtà, piuttosto “seria”.
Il trio pugliese con “
Dirty sunday”, frutto di un’unica
jam esclusivamente strumentale (al
New Born Records Studio di Barletta) risalente alla fine del 2016, dimostra di dominare attraverso un’innata attitudine la magmatica materia
psych-blues e di possedere al tempo stesso quel “carattere” necessario a distinguerli dalla massa dei
rockers contemporanei che per la loro esibizione si rivolgono con palese devozione ai suoni dei
sixties/seventies.
Hendrix (il loro dichiarato nume tutelare … il progetto nasce proprio con lo scopo di proporre una libera interpretazione del
sound del mitico mancino di Seattle …), Cactus, Blue Cheer e Groundhogs, innanzi tutto, e poi Kyuss e Karma To Burn, in un miscuglio di radici storiche e riferimenti più recenti, rappresentano le fondamenta su cui edificare un agglomerato musicale denso e avvolgente, che si rivela immediatamente nei pigri contorni
heavy-southern-blues di “
Dusty”, un’
opener capace di strapazzare fin dal primo contatto i sensi degli appassionati del genere.
La
title-track continua nell’encomiabile operazione con vigoria e dinamismo, mentre a “
Maharishi suite” è affidato il compito di svelare il lato più “spirituale” del gruppo, splendido interprete di una lunga dissertazione in note magnetica e orientaleggiante.
Il
groove più scanzonato di “
Hot wheels” garantisce un’altra bella “botta” sensoriale, e con il brano “manifesto” “
Rainbow bridge”, in cui la
band rende omaggio in maniera davvero efficace al benamato “
Re del blues elettrico”, si chiude un concentrato di energia e virtù emozionali, una dimostrazione breve e intensa di “superiorità” ispirativa, all’interno di un panorama stilistico sempre parecchio affollato.
Come si dice in questi casi …
we want more!
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