Questa la disamina a caldo di
Pozzetto –profondissimo conoscitore di metal estremo ed assiduo lettore del nostro glorioso portale- al termine dell’ascolto della nuova fatica degli
Enslaved.
Si badi: il commento tecnico del buon
Renato, che se decontestualizzato potrebbe –a torto- sembrare una rozza esclamazione priva di costrutto, va in realtà a coprire un ampio spettro di analisi, e dev’essere inteso nel suo senso più pieno ed onnicomprensivo.
Già, perché ogni singolo aspetto di “
E” impressiona:
- la gestione della (potenzialmente letale) dipartita di
Herbrand Larsen. Io per primo temevo che al cambio di
line up seguisse una flessione… e sbagliavo di grosso.
Håkon Vinje, il nuovo giovincello deputato a gestire tastiere e
clean vocals, non solo non fa rimpiangere il predecessore, ma addirittura marchia a fuoco le nuove composizioni cui prende parte, donando alle stesse un delizioso
flavour seventies. Se il buongiorno si vede dal mattino…;
- l’impianto lirico, se possibile ancor più profondo che in passato. La runa “
E”, che dona il titolo all’album, viene utilizzata nella tradizione norrena come simbolo per rappresentare il cavallo, il quale, a sua volta, assume il significato di fiducia e cooperazione. Prendendo spunto da questa immagine si dipana un
concept filosofico che narra dei legami tra uomo e natura, spingendosi sino a dissertazioni sulle simbiosi dell’animo umano e sull’armonizzazione di elementi contrastanti (ordine e caos, conscio e subconscio…). Tanto ostico quanto affascinante;
- i profili più squisitamente tecnici di un
platter suonato in modo sublime, con arrangiamenti mai sovrabbondanti e sempre funzionali al feeling delle composizioni. Senza contare che i
Fascination Street Studios hanno partorito, grazie all’immarcescibile
Jens Bogren, un’autentica gemma sonora. “
E” sprigiona vibrazioni autentiche, bilanciate alla perfezione, e possiede suoni di batteria come non mi capitava di sentire da tempo. Semplicemente la miglior veste possibile tra quelle che gli
Enslaved potevano indossare per questo ballo;
- l’equilibrio sovrannaturale tra coerenza ed evoluzione. La contiguità di quest’opera con le precedenti è lampante, eppure dai solchi del
platter non promana il seppur minimo sentore di stagnazione. Appare evidente, almeno alle mie orecchie, un approccio alla composizione onesto, privo di calcolo, sinceramente votato al perseguimento di una propria identità artistica. Identità che proprio in ragione di ciò emerge in modo fragoroso, anche nei frangenti in cui le composizioni si avventurano nei territori meno battuti;
- La brillantezza di un
songwriting che, come anticipato al punto precedente, non si nega nulla ma risulta comunque coeso. Un
songwriting maturo, sapiente, capace di miscelare con naturalezza partiture estreme e parentesi riflessive, di legare senza sforzo mondi solo apparentemente lontani come
space rock,
metal estremo,
psichedelia,
progressive e
post, di rielaborare -senza mai smarrire la propria identità- lezioni di gruppi quali
Hawkwind,
Bathory,
Mastodon,
Wardruna e
Voivod.
Inutile, se non addirittura fuorviante, soffermarsi sulla disamina dei singoli brani: l’essenza di “
E” si snuderà solo con un ascolto attento, tutto d’un fiato. Proprio immergendovi senza fretta nelle sue atmosfere e crogiolandosi nella sua struggente beltà potrete ottenere ulteriore conferma della grandezza degli
Enslaved.
Proprio come
Renato Pozzetto aveva sentenziato.