Per quanto mi riguarda,
Myles Kennedy, fin dai tempi dei The Mayfield Four, è uno dei migliori cantanti della sua generazione, da considerare un degno “erede”, per caratteristiche timbriche e interpretative, di quell’autentico “mostro” della fonazione modulata chiamato
Chris Cornell.
Dopo i successi con Alter Bridge e
Slash, è giunto per
Myles il momento di cimentarsi con un disco solista, ed ecco che il parallelo con il compianto
Cornell si rafforza, in qualche modo, ancora di più, dacché, un po’ alla maniera del pregevole “
Higher truth”, anche “
Year of the tiger” è un lavoro caratterizzato da una forte connotazione
roots, intriso di
blues, di
folk e di strumenti acustici, i mezzi più adatti, evidentemente, per consentire al nostro di abbandonarsi a una struggente forma d’introspezione, alimentata dai ricordi di un’esistenza segnata dalla prematura scomparsa del padre (che morì, a causa di un’appendicite non curata, nel 1974, proprio uno degli “
anni della tigre” per lo zodiaco cinese).
Diciamo subito che si tratta di un prodotto assai appassionante, pilotato dalla laringe duttile e ispirata di un narratore ovviamente molto “coinvolto”, capace di donare alle composizioni apici di tensione emotiva quasi mistica (e in questo, per certi versi, può ricordare anche il capolavoro eponimo dei Temple Of The Dog), alternandoli poi a sporadici sprazzi di catartica irruenza, a sottolineare in maniera efficace le diverse fasi di un percorso di crescita fatalmente complicato e dolente.
In tale contesto, la
title-track apre l’albo con il suo
pathos tangibile e una magnetica linea melodica, mentre in “
The great beyond” il senso di dramma e inquietudine si accentua ulteriormente, per poi trasformarsi in pura malinconia
blues con “
Blind faith”, rivolta a quella “fede cieca” che gli ha portato via un genitore in una maniera così assurda (la famiglia
Kennedy era devota alla dottrina del cristianesimo scientista, la quale comporta l’assoluto rifiuto della medicina scientifica).
“
Devil on the wall” ha lo spirito del
gospel e i ritmi del
rock n’ roll, “
Ghost of Shangri La” e“
Turning stones” ostentano la pigra elegia del
folk e del
country, che s’incupisce in “
Haunted by design” e “
Nothing but a name”, e diventa, con “
Mother”, una sentita dedica indirizzata a chi ha saputo superare con la forza dell’amore e dell’abnegazione le grandi difficoltà insite nell’allevare dei figli da sola.
L’amore, dunque … forse l’unico balsamo in grado di lenire le sofferenze, e non è un caso che “
Love can only heal” sia uno dei frammenti maggiormente toccanti dell’intera raccolta e che i due pezzi che lo seguono, “
Songbird” e “
One fine day”, siano rischiarati da riverberi di speranza e ottimismo, protesi sulla “storia” di un uomo e di un artista che deve la sua grande sensibilità espressiva anche a queste esperienze così traumatiche ed emotivamente formanti.
“
Year of the tiger” svela il lato più fragile, intimo e viscerale di
Myles Kennedy … una suggestiva istantanea sonica in bianco e nero (vedasi anche l’
artwork dell’opera) che raggiunge l’anima e lascia segni profondi del suo passaggio … in altre parole, un gran bell’esordio.
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