Dei
BulletBoys si ricordano soprattutto gli esordi folgoranti (per i quali si scomodò addirittura
Ted Templeman, celebre produttore di Montrose, Aerosmith, Van Halen, …), maturati nell’ambito della scena
hard rock /
hair metal californiana, e una certa somiglianza del
singer Marq Torien con
David Lee Roth, sfruttata ad arte anche in un modulo espressivo atto a replicare i fasti dei primi Van Halen (mescolati con qualcosa dei Great White).
Meno nota è la successiva conversione del gruppo a sonorità più “moderniste”, una scelta evidentemente non solo accessoria al cambiamento dei gusti del pubblico, dacché tale orientamento prosegue anche oggi in tempi di diffuso
revival ottantiano.
Nessuno potrà dunque tacciare
Torien, unico sopravvissuto della
line-up originale, di sfacciato "opportunismo", anche se tentare di avvicinarsi, come avviene nell’
opener di questo nuovo “
From out of the skies”, ai
best-sellers contemporanei Foo Fighters, potrebbe essere visto un po’ con sospetto.
Poi si scopre che il disco è stato registrato allo
Studio 606, lo stesso dei Foo Fighters, che per la sua realizzazione sono state utilizzate alcune chitarre di
Dave Grohl e una batteria di
Taylor Hawkins e si apprende che la musica degli autori del recente “
Concrete and gold” ha aiutato il
leader dei
BulletBoys a superare dei momenti difficili, ed ecco che il tutto assume i contorni di una forma di ammirazione apparentemente autentica e sentita.
Tra l’altro, escludendo le evidenze riscontrabili nella pur gradevole “
Apocalypto”, nel resto del programma la suddetta fonte ispirativa rimane sullo “sfondo”, miscelandosi con le scorie
rap-glam di “
D-Evil” (in cui affiora un pizzico dell’immortale “
20th century boy" e a cui contribuisce
Jesse Hughes degli Eagles of Death Metal), l’irruente
flavour psichedelico della
title-track e il clima malinconico di “
Hi-Fi drive by”, “
Losing end again”, della ballata acustica “
Switchblade butterfly “ e della melodrammatica “
Once upon a time”, da considerare il settore in cui la
band riesce a dare il meglio si sé.
Non spiace, infine, l’energia profusa nella graffiante “
What cha don’t”, mentre lo sconfinamento nel
funk-metal di “
P.R.A.B.” e “
Sucker punch” lascia francamente abbastanza perplessi, zavorrando ulteriormente un lavoro diviso tra luci e ombre, in cui il carisma e la vitalità di un veterano del
rock n’ roll non riescono a trovare la giusta messa a fuoco.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?