“
… eppure il debut album non era affatto male…”
Questa l’amara considerazione che mi ha accompagnato lungo tutto l’ascolto di “
Ember”. Ahimè, il secondo
full length dei
Trautonist mi ha lasciato sbigottito per pochezza e mancanza di sapore; non solo non si scorge traccia di quella progressione che era lecito attendersi da una compagine così giovane (i tedeschi si sono formati appena nel 2014), ma anzi si registra, a mio umile avviso, una paurosa involuzione.
Certo, si discetta dell’ennesima band che tenta la fortuna con un
depressive black metal ingentilito dalle ormai inflazionate atmosfere eteree proprie dello
shoegaze, dell’
indie e del
post rock; formula consunta quanto volete, ma non per questo priva di attrattiva… purché venga interpretata con gusto e competenza.
Peccato che ciò, nel caso di specie, non sia avvenuto: per rendersene conto basterà posare l’orecchio su una semi-
title track dal piglio frivolo e dall’architettura altrettanto casual, nel solco di uno
shoegaze piatto, privo di elementi estremi ma, d’altra parte, nemmeno dotato di particolari inclinazioni
dream pop capaci di suggerire spunti armonici degni di nota.
Lo scorrere della
tracklist denuncia altresì un impasto sonoro (opera di
Markus Siegenhort dei contigui
Lantlôs) in cui la confusione regna sovrana, oltre ad una perizia strumentale decisamente perfettibile (chissà che il batterista
Hendrik, da poco ingaggiato, non porti in dote una rinnovata linfa esecutiva).
L’immancabile fuzz delle chitarre torna protagonista in “
Vanish”, brano dotato di intarsi melodici più costruttivi sebbene insufficienti a giustificarne l’eccessiva durata; lo stesso può dirsi di “
The Garden” e “
Smoke & Ember”, doppietta in cui assistiamo impotenti al naufragio delle
vocals di
Katharina, sospinte negli abissi da un mix arruffone e da partiture tutt’altro che indimenticabili.
La seconda metà del
platter non riesce nell’arduo compito di risollevarne le sorti: “
Hills of Gold”, a dispetto di un innalzamento dei ritmi, mantiene un
mood lamentoso e petulante che, seppur in qualche misura congenito al genere proposto, rende l’ascolto oltremodo gravoso.
Le sognanti parabole di “
Sunwalk”, dal canto loro, non fanno gridare al miracolo, ma nel mezzo di cotanta siccità compositiva costituiscono una delle poche oasi sonore di cui “
Ember” può disporre, prima che “
Woody Allen” (titolo strampalato anzichenò) chiuda le danze con un rabbioso parapiglia
black metal -piuttosto incongruo rispetto a quanto ascoltato sinora- incastonato fra timide digressioni pianistiche.
Bah.
Credo si sia ormai capito: il secondogenito di casa
Trautonist, per quel che mi riguarda, rappresenta un passo falso da dimenticare quanto prima. Urge una pronta inversione di tendenza; diversamente, il rischio è quello di vedere i Nostri confinati vita natural durante nel crudele reame dell’insignificanza.
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