Tempo fa qualche esperto ipercritico sentenziava riguardo i Dead Meadow: “Si, bravi, bel rock psichedelico, ma alla fine i loro dischi sono tutti uguali!”.
In parte è un’affermazione comprensibile, dato che la formazione di Washington, DC, ora divenuta un quartetto dopo lunghi anni trascorsi come power-trio, ha trovato una formula vincente sin dal mitico debutto datato 2001 seguendo poi il medesimo binario nei lavori successivi senza più apportare modifiche significative. Ma il loro stile, così splendidamente bilanciato tra concretezza terrena ed escapismo onirico, possiede un marchio talmente personale da essere immediatamente riconoscibile, cosa assai rara non soltanto in ambito psych-rock. Dunque, in un’epoca musicale dominata dai ricicli e dalle clonazioni, perché stravolgere una proposta autonoma e singolare?
Così “Feathers” ripropone ancora il discorso dei suoi predecessori, un vulcanico trip-rock debitore tanto ai Pink Floyd era-Barret quanto ai primi Black Sabbath ed a tutto il movimento acid-rock anni ’60 e ’70, sviluppato con spirito quasi cantautorale in lunghe ballate mutevoli ed avvolgenti frutto di elastici spunti hard ed incantevoli momenti narco-lisergici, pilotati dalle cantilene nasali di Jason Simon, un tratto ormai inconfondibile della band americana.
Si avverte un leggero incremento di energia e solidità forse dovuto all’ingresso della seconda chitarra, un dinamismo heavy accentuato che risalta nel crescendo vibrante e nervoso di “Let’s jump in” o nella compattezza di “Heaven”, ed è in pratica la novità più rilevante del nuovo lavoro. Per il resto si confermano i meravigliosi arabeschi ipnotici di liquida purezza cristallina che hanno elevato i Dead Meadow ai vertici della scena psichedelica contemporanea, quell’approccio gentile e spirituale alla materia creatore di sublimi atmosfere magiche e fiabesche e contemporaneamente di grande intensità strumentale libera da regole troppo costrittive.
Che si tratti di estesi incanti floydiani immaginari e cosmici come “Eyeliss gaze..” o “Let it all pass” piuttosto che di trasognate acid-songs invernali e notturne che profumano quasi di antichi cantastorie, vedi “Get up on down” o la memorabile “Stacy’s song”, il potente e specifico effetto di fuga dalla realtà del sound Dead Meadow non subisce cedimenti e non perde quell’essenza di viaggio interiore che racchiude in sé.
A coronamento dell’opera c’è lo sconfinato riadattamento di “Sleepy silver door”, cavallo di battaglia del gruppo tratto dall’album d’esordio, che qui diventa ancora più estatico e monumentale in una sorta di rielaborazione moderna della teoria “feed your mind” di Jefferson-iana memoria, un epico poema ultra-space che testimonia ancora una volta la classe eccelsa di questa formazione.
Non si cerchino rivoluzioni nel rarefatto e fantastico mondo dei Dead Meadow, bensì soltanto l’ammirazione per un nuovo stupendo capitolo di una discografia dai contenuti quasi unici nel suo genere.
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