Considero l’esordio omonimo degli
Hungryheart un momento molto importante per le sorti della cosiddetta
Italian Wave Of Melodic Rock, un’evidente conferma di come anche la nostra
Italietta fosse in grado di competere con lo strapotere anglosassone e scandinavo del settore senza alcun timore reverenziale.
Consapevoli che i tempi delle “scuse”, sebbene in parte legittime (inadeguatezze tecniche, invidie e ostruzionismi vari, …), erano ormai ampiamente finiti, quattro ragazzi del Lodigiano concentrano nella loro “opera prima” amicizia, catarsi, istinto e innegabile talento e nonostante un
budget ridotto e qualche fatale ingenuità sfornano un albo di notevole qualità, che evidenzia subito le doti di
Josh Zighetti, cantante di grande espressività e
Mario Percudani, chitarrista dal gusto sopraffino, edificato sugli insegnamenti di maestri del calibro di
Pete Lesperance,
Steve Lukather,
Dann Huff e
Eddie Van Halen.
Completato da una funzionale sezione ritmica (composta da
Lele Meola ed
Emilio Sobacchi) il gruppo sfoggia un
songwriting incisivo e ammaliante, che mescola con disinvoltura
hard-rock e
AOR, in un crogiolo da cui si scorgono nitide ed effigi di Van Halen, Giant, Bad English e Whitesnake, per una volta tutte “sorridenti”, felici di aver contribuito a ispirare una formazione così ricca di temperamento.
Dal 2008, anno dell’uscita originaria del disco, a oggi, i nostri sono maturati in maniera considerevole e il loro
curriculum si è enormemente arricchito di esperienza e di collaborazioni prestigiose, ma se volete capire come tutto è iniziato e come la loro destrezza superiore fosse evidente fin da quei primi passi non ancora pienamente “sicuri”, il mio consiglio è di festeggiare con la
band il decennale di quel debutto, sfruttando questa sua riedizione arricchita da una diversa versione della
bluesy “
River of soul” e dalla trascrizione acustica della splendida “
The only one”, entrambe eseguite dall’attuale
line-up (e cioè con
Stefano Scola al basso e
Paolo Botteschi dietro ai tamburi) degli
Hungryheart.
Due brani che sono qualcosa di più di una semplice “esca” per collezionisti e dimostrano quanto stesure musicali già assai affascinanti possano essere brillantemente manipolate proprio grazie ad un’evoluzione artistica costruita attraverso l’eccellente “
One ticket to paradise” e approdata a “
Dirty italian job”, l’apice, finora, di una favolosa “storia” italiana, diventata meritatamente internazionale.
Detto ciò, non rimane che fare un piccolo salto indietro nel tempo, per accorgersi di quanto la bellezza di “
Stealing the night”, “
Innocent tears” (un po’ alla “
Here I go again”), “
Hard lovin’ woman”, “
Breath away”,“
It takes two” e “
Gina” (pregevole
cover di
Michael Bolton …
ehi,
Mario, ricordati che mi aspetto un analogo trattamento per “
Can't turn it off”!) sia rimasta intatta, intrisa di una passione, un’esuberanza e di una voglia di “spaccare” invidiabili.
Caratteristiche che fortunatamente non si sono perse neanche con la “crescita” e che ci fanno attendere con ansia un nuovo lavoro degli
Hungryheart … per ora, auguri di cuore, ragazzi, e come dico sempre (io e “qualcun altro”, in realtà …), mi raccomando,
don’t stop believin’!