I Capricorns nascono verso la fine del 2003, grazie alla collaborazione di alcuni ex-militanti in formazioni piuttosto note del panorama heavy alternativo britannico quali Iron Monkey, Orange Goblin, The Dukes of Nothing e Bridge and Tunnel. Gruppi di estrazione stilistica molto differente, ma accomunati da una similare attitudine nell'interpretare una musica slegata dalle rigide schematizzazioni e totalmente priva di connotati trendisti o di facile spendibilità nel consumo immediato.
Musicisti con tale retroterra concettuale non potevano che proporre qualcosa di impegnativo e poco scontato, imboccando una strada rischiosa e piena d'insidie che però alla fine li ha portati ad imporsi come una delle migliori rivelazioni dell'annata in corso.
A dire il vero la band inglese aveva già esordito lo scorso anno con un ep omonimo di tre brani, immediatamente incensato dalla critica, ma è con il presente album che i Capricorns possono sviluppare in modo completo ed esteso il proprio ambizioso progetto, che prima di tutto si conferma prevalentemente strumentale.
Nell'arco dell'intero lavoro soltanto pochi minuti di voce psicotica ed alienata inseriti in "1969: a predator among us" interrompono brevemente il flusso sonoro, sufficenti comunque a dimostrare che il quartetto non sposa l'integralismo fanatico lasciando aperti spiragli ad eventuali soluzioni di altro genere. Potenziali cambiamenti che per ora appartengono ad un ipotetico futuro, visto che oggi i Capricorns utilizzano un puro linguaggio strumentale per dare vita ad un magnifico ed articolato torrente elettrico.
L'impetuoso scorrimento trova la sua sorgente nell'aspro territorio metal, ed è con questo genere che si formano le solide e potenti basi sulle quali costruire fantasiose variazioni, ma nell'attraversare i brani si ramifica con lucida coerenza nei vari filamenti heavy-stoner, dark-progressivi e soprattutto fortemente psichedelici.
I possibili riferimenti sono tanto ovvi quanto sfumati, inevitabile pensare ad Isis, Pelican, Stinking Lizaveta e su tutti Karma to Burn, con i quali condividono anche il vezzo numerico dei titoli, ma si può gettare lo sguardo anche su periodi assai più antichi arrivando fino a pionieri eccelsi come gli High Tide o gli immortali giganti Pink Floyd, mirabilmente evocati dalle linee pulsanti di "1440: exit wargasmatron".
Chi pensa ai lavori strumentali come noiosi sbrodolamenti senza scopo potrà ricredersi con la concretezza di questo disco, dove gli episodi sono certo dilatati ed in costante mutamento ma sempre in grado di esprimere strutture chiare e definite, non private dall'assenza di voce del loro aspetto di vere canzoni.
Gli sforzi maggiori sono destinati alle imponenti cavalcate come "1066: born on the bayeux" e "1946: the last renaissaince man", dove il gruppo procede a briglie sciolte in un crescendo poderoso, fluido ed intenso, dispiegando ventagli di accellerate bordate metalliche ed appaganti alternanze psycho-progressive.
Ancora una volta devo inchinarmi con piacere di fronte alla palese validità di un lavoro prettamente strumentale, sebbene non abbia mai mostrato particolare inclinazione verso questo tipo di opere.
Un piccolo merito in più per i Capricorns, i quali mettono a segno un colpo ricco di qualità ed intelligenza, magari non immediato ma in grado di essere apprezzato da chi cerca buona musica senza farsi limitare da categorie di appartenenza o etichette giornalistiche.
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