Vi assicuro che scrivere una recensione dei
Death SS non è mai cosa facile. Se si riesce, infatti, ad evitare luoghi comuni e a non scrivere banalità e cose già lette e rilette, resta sempre la difficoltà di analizzare l’album in maniera obiettiva, senza lasciarsi deviare da una sorta di timore reverenziale verso una band che, nel bene e nel male, ha scritto pagine fondamentali della musica metal italiana, e non solo.
A questo aggiungiamoci un’altra problematicità, e cioè che da quando
Steve Sylvester ha deciso di scendere di nuovo in campo con la sua creatura lo ha fatto eliminando ogni schema possibile, ogni logica di mercato o stilistica, facendo semplicemente ciò che gli gira per la testa. Cosa, in realtà, che in un certo senso ha sempre fatto, visto che ogni album del gruppo è sempre stato differente da quello precedente, e non si è mai posto il problema di restare ancorato ad un genere specifico, esplorando tutte le sfaccettature del metal, da quello più classico a quello più moderno, senza dimenticare la musica originale dalla quale ha preso ispirazione, e cioè quella degli anni ’70, più precisamente il periodo glam.
Dov’è quindi la novità questa volta? La novità consiste nel fatto che se negli anni scorsi ogni album seguiva, più o meno, una linea guida, a volte più industrial, altre più classica, questa volta
Steve e soci hanno deciso di fregarsene di tutto e di tutti e hanno dato alle stampe il loro album più eterogeneo di sempre, con il risultato di spiazzare decisamente l’ascoltatore, per lo meno ad un primo ascolto. Quando poi ci si immerge nell’album con più attenzione, si riesce a capire come tutto collimi. Ma vi assicuro che passare dalle atmosfere sulfuree e tetre di “
Black soul” (peraltro coraggiosamente messa in apertura, quando tutto può essere considerato tranne un brano adatto ad iniziare un disco, perlomeno di una band normale, ma qui stiamo pur sempre parlando dei
Death SS), all’oscuro country blues di “
The glory of the hawk”, alle sonorità quasi industrial di “
Witches dance”, al rock and roll della titletrack, che tributa senza troppi veli la band di
Stanley e
Simmons, alla dark wave di “
Madness of love”, può lasciare basito anche il più scafato degli ascoltatori.
Per quanto riguarda l’aspetto più propriamente metal, i nostri di certo non lesinano rasoiate di prim’ordine, in cui passano con disinvoltura dal classic (“
Slaughterhouse”) a spruzzatine di power, evidenziate soprattutto dagli assolo di
Al De Noble, il quale svolge un egregio lavoro su tutto il disco, vedi l’ottimo solo della titletrack, ma che, a mio avviso, esagera di tanto in tanto con sfuriate neoclassiche che poco si adattano alle sonorità dei brani (vedi “
Hellish knights” come esempio valido per tutti gli altri), ma questa resta soltanto una mia personale opinione.
Come dicevo in apertura, appare evidente la consapevolezza, da parte di
Sylvester, di non dover dimostrare più nulla a nessuno, dopo quarant’anni di onorata carriera, e di poter, quindi, fare tutto ciò che gli gira per la testa. Il risultato è questo
Rock ‘n’ roll armageddon”, una sorta di bignami di tutta la carriera del gruppo, un disco che ancora una volta, come è sempre stato per loro, fin dal lontano 1977, mette la band nella posizione di essere amata od odiata, senza via di mezzo, senza compromessi. Il nono album della loro carriera non può certo essere considerato un capolavoro, ma si tratta pur sempre di un ottimo disco, pieno di ottimi brani, con qualche piccolo calo qua e là che però non inficia più di tanto il risultato finale. Un nuovo sigillo è stato posto, e se tanto mi da tanto, non sarà di certo l’ultimo, visto l’ottimo stato di salute di
Steve e dei suoi accoliti!