Quant’è difficile affrontare con mente libera da condizionamenti il nuovo lavoro di una vera
cult-band?
Come si fa a essere obiettivi con chi avrebbe meritato ben di più che essere ricordata, e da una schiera ristretta di “intenditori”, per la sua straordinaria, poco fortunata e “irriducibile” parabola artistica?
L’impresa è ovviamente ardua, la speranza di vedere lo spirito originale del gruppo rivivere nella sua essenza più autentica e feconda si scontra con i dubbi insiti in ogni “rifondazione” e con il rischio di incappare in un’eccessiva benevolenza a scopo di (tardivo) risarcimento.
E’ con questo travagliato stato d’animo che mi appresto ad ascoltare “
Eye of the stygian witches” degli
Ashbury, un’oscura formazione americana che con il suo “
Endless skies” del 1983 consegnò al mondo del
rock una piccola e sfavillante gemma di epica forza evocativa.
Il rifiuto di “piegarsi” alle regole di un mercato discografico dispotico e miope li consegna all’oblio, almeno fino al 2010 quando l’uscita del pregevole “
Something funny going on” (contenente vecchie composizioni inedite) riporta un raggio di luce sui fratelli
Davis e sul loro miraggio celtico emigrato sulla
west-coast, ispirato da Jethro Tull, The Allman Brothers, Uriah Heep,
James Taylor e Fairport Convention.
Modelli che s’incrociano anche nei solchi di questo ritorno targato
High Roller Records (la quale ha recentemente ristampato anche i due precedenti
album della
band), e che, sapientemente manipolati dai nostri, continuano ad alimentare un suono straordinariamente immaginifico, remoto nella concezione ma “senza tempo” negli effetti emotivi.
Ed eccoci, però, a un passaggio pressoché imprescindibile della disamina … in tutta franchezza non mi sento di equiparare “
Eye of the stygian witches” all’eccezionale esordio dei nostri e tuttavia rilevo nel programma un’analoga tensione espressiva e la classe di musicisti fortemente motivati, ansiosi di dimostrare quanto la loro intensità lirica e la loro innata capacità nel dipingere solenni stesure melodiche non si siano disperse nei meandri del tempo.
Tra spettri dell’antica Inghilterra, ipnotiche litanie
blues e stratificazioni vocali “californiane”, il tutto innervato dalle tipiche soluzioni musicali dell’
hard settantiano, l’albo sciorina tutta la sua fantasiosa carica di leggendaria suggestione, riportando in auge il gusto di una formazione forse troppo “europea” per essere compresa veramente dal pubblico d’oltreoceano.
“
End of all time”, “
Good guitar” (con barlumi di Canned Heat nell’impasto sonico), la nostalgica ballata “
Summer fades away”, la favolosa “
Waited so long” (una sorta di fusione tra The Moody Blues, Jethro Tull e CSN&Y), “
Searchin'” e l’eroica
title-track del disco (dedicata al mito di
Perseo) sono eccellenti esempi dell’
Ashbury-sound, e rappresentano assai bene l’indole artistica di un manipolo d’incorruttibili, tornato nel 2018 senza essere ossessionato dal passato o alimentato da desideri di rivalsa e per cui l’unico movente veramente valido è la bruciante passione per le “radici profonde” della musica popolare, da affidare a tutti quelli ancora capaci di comprenderne l’imperitura “modernità”.
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