Destino ingrato quello toccato ai
Vreid: benché generalmente stimati da fans e stampa specializzata, non sono mai riusciti a raggiungere uno status confacente alle loro notevolissime capacità.
Io stesso, che li seguo ed apprezzo dai primordi della loro carriera, accolgo ogni nuova uscita con genuina curiosità, ma non con l’hype spasmodico riservato ad altre formazioni.
E dire che, ad oggi, il combo scandinavo non ha sbagliato una mossa, inanellando album su album di ottima fattura e cesellando, nel contempo, un trademark sonoro riconoscibile e ricco di sfumature -
black’n’roll, metal classico e
folk le influenze più vistose-.
Il nuovo “
Lifehunger”, per fortuna, non interrompe la serie positiva: introdotto nel migliore dei modi da un irresistibile
artwork di copertina (soggetto logoro quanto volete, stile fumettoso quanto volete, ma a me garba un sacco), il settimo
full length dei Nostri riesce a mantenersi coerente con le coordinate sopra descritte, esplorandone però le componenti più accessibili.
I testi (nuovamente) in inglese, la breve durata del disco e dei brani che lo compongono, il
songwriting più conciso, la presenza di numerosi assoli di chitarra e di evocative digressioni acustiche formano un corpo indiziario piuttosto robusto, che conduce dritto dritto ad un generale ammorbidimento del
sound.
Suvvia, non storcete il naso: come avrete notato dal voto in calce, la direzione intrapresa non ha condotto a riverberi negativi sotto il profilo della qualità, anzi. Peraltro, è vero che rispetto al precedente “
Sólverv” la componente estrema gode di minor risalto, ma non per questo ci troviamo di fronte ad un prodotto privo di nerbo.
La forsennata ferocia di “
Sokrates Must Die” ed il glaciale
riffing che inaugura “
One Hundred Years” sono lì a ricordare che i
Vreid, quando vogliono, sanno graffiare eccome.
Tuttavia, è mia impressione che il cuore pulsante di “
Lifehunger” risieda altrove.
Penso innanzitutto alla fascia centrale del
platter, ossia quella più succulenta al mio palato:
- il letale
groove di “
The Dead White”, marchiata a fuoco dal solito, gran lavoro di
Hváll al basso e dalla commovente coda alla
Dissection;
- la macabra marzialità di “
Black Rites in the Black Nights”, degna dei migliori
Tribulation;
- la gemma di paranoica malinconia a titolo “
Hello Darkness”, in cui l’ugola del
guest Aðalbjörn Tryggvason dipinge melodie a cavallo tra
Sòlstafir (ma và?) ed i
Lifelover meno votati all'autolesionionismo.
Più in generale, al netto di una sghemba
title track –sin troppo anarchica a livello strutturale- e della conclusiva strumentale “
Heimatt” –che sa essere tanto suggestiva quanto, ahimè, dispersiva-, ci troviamo di fronte ad una scaletta oltremodo stimolante e ricca di spunti positivi.
In casa
Vreid, tirando le somme, cambiano i dosaggi degli ingredienti ma non il risultato: “
Lifehunger” merita di essere ricordato come l’ennesimo, grande lavoro di una delle compagini più tristemente sottostimate del panorama odierno.
Che sia infine questa la volta buona?