Lo devo confessare … ho chiesto di occuparmi del secondo albo dei
rebelHot dopo aver appreso della loro ammirazione per i Cry Of Love (tra l’altro
Jason Patterson è stato
special guest del debutto dei nostri …), certo che chi aveva il buongusto per apprezzare gli autori del fenomenale "
Brother" non “poteva” fallire.
Ebbene, chiamatelo “istinto” o casualità, per una volta una valutazione epidermica e un po’ infantile ha avuto una piena conferma alla prova dei fatti.
Sarà anche perché certi suoni bisogna giudicarli “a pelle”, abbandonando parametri ispirati alla pura logica, quella, cioè, che potrebbe indurre a considerare “
Uncomfortableness” l’ennesima testimonianza di una scena
rock n’ roll in piena crisi di nuovi stimoli creativi.
La verità è che per seguire in maniera credibile e costruttiva sentieri già percorsi da grandi interpreti del
rock blues settantiano, tra impareggiabili
Maestri (Free, Little Feat, Humble Pie, James Gang, …) e valorosi epigoni (Badlands, Burning Tree, The Black Crowes, The Temperance Movement, …), ci vogliono, oltre ad un’adeguata preparazione tecnica, molta passionalità, secchiate di talento e la capacità innata di generare fiotti imponenti di tensione espressiva … in una parola, tanta attitudine.
Tutta “roba” che risiede copiosa nei solchi di questo pregevole
full-length, dove si combina in maniera precisa con una notevole qualità nel
songwriting, assai “rigoroso” e tuttavia incapace di istigare fastidiosi effetti
déjà entendu.
La bella voce ruvida e “alcolica” di
Husty (con un pizzico del mitico
Bon Scott nell’impasto timbrico), l’emozionante chitarra
Hendrix-iana di
Paul e la pulsante sezione ritmica gestita da
Ze e
Frank contribuiscono, ovviamente, in modo decisivo a una raccolta di ottime canzoni, intense e polverose, scalcianti e avvolgenti, calde e viscerali.
Difficile scegliere le migliori del programma … forse la spigliatezza di “
How is Elvis“ e “
Sunday morning”, gli accenti
R n’B di “
Wheeler dealer”, le avviluppanti scansioni
hard-blues di “
High heels, hot wheels” e poi ancora l’ardore “sudista” di “
Keep on keepin’ on” e la ballata “
Love and divine”, hanno “qualcosa” in più delle altre, ma è necessario altresì rilevare come il flusso del
feeling non s’interrompa mai durante l’intera durata dell’opera.
Ah, un’ultima considerazione … i
rebelHot sono italiani, e il fatto che mi stessi quasi dimenticando di evidenziarlo ratifica solo un assioma di cui sono sempre più convinto … ci sono cose, nella musica, che oltre ad essere “senza tempo” sono pure completamente “senza confini”.
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