Carl Sentance (Persian Risk, Geezer Butler Band, Paul Chapman's Ghost, Krokus, ...) alla voce, Carlos Cavazo (Quiet Riot) alla chitarra, Vinny Appice (Axis, Black Sabbath, Dio, ...) alla batteria e Jeff Pilson al basso (Dokken, Dio, Foreigner, MSG, War and Peace, ...), questo è il personale esecutivo dei Power Project, mentre le "menti operative" del progetto sono quelle di Andy Menario e Maurizio Capitini, strepitosi talenti del metallo nazionale con i Martiria e oggi anche "illuminati" discografici con la neonata Powerzone Records.
Una sinergia che coinvolge, per la stesura dei testi, anche Marco Capelli, pure lui già collaboratore degli epic-metallers romani e che riporta alla luce tutte le migliori caratteristiche di quel suono che parte dall'hard rock per trasformarsi in vera potenza metal, tra vividi sprazzi di NWOBHM e taluni richiami a Dio (niente paura, nulla di particolarmente "mistico", stiamo parlando del mitico Ronnie James, sia nelle sue migliori digressioni da solista, sia nelle sue esperienze con i Black Sabbath), per una rappresentazione il cui riferimento storico non può che essere identificabile con gli anni ottanta, in assoluto il momento di massimo splendore creativo per queste specifiche coordinate musicali. Sia chiaro, però, che in questo caso non si tratta di una sorta di impersonale esercizio "duplicatorio" di quel sound, ma bensì di una sua reale "rievocazione", tanto autentica da sembrare quasi il frutto del ritrovamento di una qualche gemma perduta proveniente direttamente da quel summenzionato "glorioso" periodo.
Un aspetto, quest'ultimo, di rilevanza fondamentale per la credibilità di un prodotto di questo genere, ma è sufficiente scorrere il curriculum (anche se non sempre è una garanzia integrale d'efficacia) dei musicisti interessati per non sorprendesi più di tanto, così come, fatto ancora di maggiore importanza, è altresì innegabile che la scrittura di Menarini (autore di tutte le musiche di "Dinosaurs") sia fomentata da una passione e vocazione naturale per queste sonorità, assimilabile, tra l'altro, sebbene in un ambito stilistico abbastanza diverso, a quella che nutre i Martiria stessi e che ha contribuito a renderli così grandi.
Persino la registrazione (mixaggio e masterizzazione sono amministrate da Capitini), vigorosa ma non "invadente", possiede quel "calore" confortevole che riporta alla mente certe esperienze "viniliche" del passato (non sono un nostalgico irriducibile dell'lp, per carità, ma certe produzioni attuali fin troppo "dirompenti" e "perfettine", credo tendano ad appiattire leggermente certe sfumature e profondità sonore, viceversa molto importanti), con l'ugola di Sentance, prima sorpresa positiva a scaturire dai "solchi" del disco: sarò completamente sincero, dopo la sua prova nei Persian Risk, ho perso quasi del tutto le sue tracce, ma lo stato di grazia che esibisce in questo platter mi costringerà a rispolverare dagli archivi la mia copia di "Rise up" (non me lo ricordavo così bravo!) e forse anche ad approfondire un po' meglio la sua parabola artistica.
La proposta dei Power Project riesce ad essere "classica" senza perdere in freschezza e non c'è una sola traccia del disco che possa essere trascurata o metta in mostra un qualche calo d'intensità sia a livello di songwriting, sia interpretativo, per merito, e voglio ribadirlo ancora una volta, di un prezioso coordinamento tra chi li ha pensati e chi, con la forza della maturità e della competenza specifica, ma anche con un apparentemente sincero coinvolgimento, è riuscito a convertirli in un'esperienza sensoriale immediata, possente e davvero molto soddisfacente.
Si parte con la clamorosa apertura di "Mind control" dall'incedere irresistibile, si prosegue con l'ardore formidabile della title-track e il suo break evocativo, l'incredibile prova vocale e il riff Iommi-esque di "Boats of despair" (traccia veramente da applauso!), gli scatti e i controcanti di "War is over" e "Welcome to tomorrow's little world", i fraseggi e le cadenze di "She went away" e "20 hours of midnight", la drammatica espressività e le armonizzazioni da brividi di "Shadows" e poi ancora con l'insinuante infezione di "Zombies" e con l'emozionante alito bluesy che alimenta "Indian path", posta a conclusione di un album che giustifica appieno l'invenzione del tasto "repeat" di cui sono forniti i lettori Cd.
Il disco s'intitola "Dinosaurs" e nonostante non sia mai stato attratto dallo studio della paleontologia, adoro letteralmente questa specifica razza di "rettili preistorici", ancora capaci di dominare "l'ecosistema musicale" con l'identica energia che li ha sostenuti durante la loro prima apparizione sulla "Terra". Finché ci saranno album come questo, l'estinzione della specie non corre nessun pericolo e anche per quelli che la ritengono (magari allettati dalle continue "novità" propinate dal mercato o perché scottati da troppo frequenti tentativi d'imitazione asettici) un tipo di manifestazione ormai "sorpassata" e "vetusta", il mio modesto consiglio è di trovare il tempo e l'occasione per dare in ogni caso un'ascoltata attenta a queste canzoni ... chissà che non riescano a farvi (ri)innamorare di quel genuino heavy metal ottimamente suonato e composto, privo di contaminazioni di sorta, che è indiscutibilmente riproposto in questa circostanza.
Se poi questa è una colpa, beh, direi proprio che è di un tipo per cui non è richiesta nessuna forma di redenzione.