Prima di addentrarci nell’analisi di “
Skald”, il nuovo album dei
Wardruna credo sia necessario fare un paio di precisazioni per chi non è a conoscenza della band.
Innanzitutto il motivo per cui il gruppo si trova su queste pagine è ricollegabile esclusivamente al passato del suo mastermind
Einar Selvik, il quale ha avuto trascorsi in una marea di gruppi metal norvegesi, tra i quali i più noti sono senza dubbio i Gorgoroth. E proprio con
Gaahl, ex singer della band, ha messo su il progetto
Wardruna nel 2003 (quest’ultimo ha poi abbandonato la nave nel 2014).
Il secondo motivo per cui stiamo parlando di questo gruppo è ovviamente il fatto che l’immaginario vichingo ha da sempre fatto parte delle tematiche affrontate di gruppi metal, e non è un caso che negli anni si sia sviluppato proprio un filone indicato come viking metal.
Detto ciò, scordatevi completamente la parola metal se avete intenzione di ascoltare un qualsiasi album della band, in quanto non ne troverete minimamente traccia. Il progetto
Wardruna va decisamente oltre il concetto di viking metal, e si ripropone di presentare, attraverso l’utilizzo di ricostruzioni di antichi strumenti acustici, lo studio approfondito di testi arcaici di poesie, e l’uso delle lingue nordiche ancestrali, tutto ciò che concerne la cultura vichinga.
Nessuna chitarra distorta, quindi, nessuna batteria, né growl o screaming. La musica che ascolterete vi trasporterà indietro nei secoli a bordo di un drakkar o in un villaggio di allevatori sulla costa islandese, e vi trasporterà in un mondo parallelo onirico ed epico.
Conclusa la trilogia inziale intitolata Runaljod, dedicata alle 24 rune antiche dell’alfabeto norreno, il nostro
Selvik si incammina in un progetto meno ambizioso del precedente, ma sicuramente molto più ostico. Se nei primi tre dischi della band l’utilizzo degli strumenti antichi era affiancato da cori, rumori della natura, percussioni tribali, che rendevano il tutto molto più epico e coinvolgente, questa volta
Einar ha deciso di fare tutto da solo. Ha preso la sua kraviklyre, la sua taglharpa e il suo bukkehorn, e munito soltanto della sua voce ha messo su dieci tracce in cui resta solo con se stesso ed esplora la parte più intima della sua musica, registrando il tutto dal vivo in studio.
Si tratta per lo più di antiche poesie e di antiche cantilene recitate e messe in musica da
Selvik, non nuovo a questo tipo di esperimento, in quanto già diverse volte ha proposto dal vivo spettacoli di questo tipo nei quali rimaneva da solo sul palco a narrare le antiche storie e leggende vichinghe. Non vi nascondo che l’ascolto è veramente ostico, estremamente intimista, e riuscirete ad arrivare alla fine dell’album solo se siete amanti viscerali delle tradizioni vichinghe, o semplicemente della parte più sperimentale e coraggiosa della musica.
Non starò qui a dirvi quale brano è migliore degli altri perché non avrebbe senso. Ogni episodio trasmette delle emozioni differenti, e ognuno di voi reagirà a modo suo durante l’ascolto. Vi segnalo solo la lunghissima
Sonatorrek (quasi sedici minuti!), dove il nostro si spinge ancora più oltre, e non si accompagna a nessuno strumento. C’è solo la sua voce che in una sorta di trip ripete allo sfinimento la melodia del brano, una sorta di nenia che alla fine vi entrerà nella testa come un tarlo. Episodio senza dubbio coraggioso e al tempo stesso destabilizzante per chi ascolta…
In chiusura, “
Skald” mi ha lasciato decisamente spiazzato, e non vi nascondo che lo ascolterò molto più raramente di quanto faccia con i primi tre lavori della band. Ciononostante non posso in alcun modo negarne il valore artistico, anche se so già che dal 90% delle persone verrà liquidato come un album orribile ed inascoltabile. Ma penso che tutto questo
Selvik lo sappia perfettamente e se ne freghi altamente!
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