Carriera lunga e travagliata, quella dei veterani thrash metal
Artillery. Emersi nei primi anni ’80 dai sobborghi di Copenhagen, entro la fine del decennio realizzano un trittico di lavori tanto buoni quanto sottovalutati a causa della spietata concorrenza nel settore ("Fear of tomorrow", "Terror squad", "By inheritance"). Si sciolgono nel 1991 per i soliti problemi interni, tornando brevemente alla ribalta con l’album “B.A.C.K.” (1999). Nuova pausa di inattività, conclusa nel 2009 quando esce “When death comes”. Da quel momento la formazione danese ha cavalcato con ottimi risultati l’ondata di revival metallico, che li ha portati ad essere considerati una cult-band del panorama thrash internazionale.
Adesso pubblicano il nono album da studio, intitolato “
The face of fear”, confermando lo stato di forma, convinzione e motivazione, che avevamo notato con piacere nei precedenti lavori, ma anche il conseguente cambio di atteggiamento stilistico. Il thrash old-school, massiccio e incazzato, battente e convulso, tecnico ed intenso, ispirato alla torbida furia iconoclasta degli esordi, lo ritroviamo in mazzate spezzacollo come “
Sworn utopia”, la title-track e la conclusiva “
Preaching to the converted”, una serie di tuffi nell’orgasmo metallico ottantiano. Insieme però a brani più articolati dove emerge evidente un certo retrogusto rock, vedi “
Through the ages of atrocity”, “
Thirst for the worst” o, in maniera addirittura clamorosa, nel singolo “
Pain”, una canzone che non si può definire altro che hard rock di classe. In effetti questo tipo di tracce appare più adatto alla timbrica squillante e pulita di
Bastholm Dalh, così diversa dai toni cupi e sinistri del mitico Flemming Ronsdorf, vocalist che all’epoca ho apprezzato moltissimo.
Dunque un buon disco, vario e ben suonato, se si accetta il fatto che gli
Artillery del 2018 non sono più, o sono ormai soltanto in parte, quelli che noi fans della prima ora abbiamo amato nella seconda metà degli eightees.
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