Difficile non ingolosirsi in maniera avida e smaniosa di fronte a una situazione artistica di questo tipo:
Toby Hitchcock, ormai riconosciuto come uno dei
Grandi della fonazione modulata
adulta (ruolo ottenuto con l’
imprimatur di
Jim Peterik, non esattamente uno “qualunque” …), impegnato in una collaborazione con
Michael Palace, nome “emergente” di spicco della scena (Palace, Find Me, First Signal, Cry of Dawn,
Hank Erix, …) e
Daniel Flores, un altro autentico protagonista del
rockrama melodico contemporaneo (Find Me, First Signal, The Murder Of My Sweet, …).
Se a tali prestigiose credenziali, poi, aggiungiamo il vivido ricordo dell’eccellente “
Mercury’s down”, in cui il
singer dei Pride Of Lions si era avvalso dei preziosi servigi di
Erik “
Re Mida”
Martensson, appare ancora più chiaro quante fossero elevate le aspettative per questo “
Reckoning”.
Purtroppo, però, in analogia a quanto succede nel mondo dello
sport, dove non sempre una formazione piena di “stelle”, se manca l'amalgama o un’arguta “regia”, riesce a sbaragliare la concorrenza, anche nel secondo albo solista di
Hitchcock l’impressione è che dosi imponenti di talento e perizia non siano state sufficienti per puntare a una vittoria schiacciante su tutti i fronti.
Il prodotto è ovviamente molto curato e competente dal punto di vista squisitamente esecutivo, mentre sotto il profilo emotivo rilevo un grado di coinvolgimento abbastanza limitato, più legato alle prestazioni individuali che ad una brillantezza di “gioco” complessivo.
Il “peso” di Find Me e Palace finisce per essere vagamente opprimente, stemperandosi in un
songwriting non esattamente euforizzante e in una produzione un po’ ridondante e “impastata”, incapace di esaltare un suono che invece a certi livelli prospera anche grazie alla pulizia e all’equilibrio delle varie componenti armoniche.
Così, a impressionare veramente rimane la solita prestazione “monstre” di
Toby e una manciata di canzoni come “
No surrender”, "
Promise me”, “
Behind the lies”, "
Fighting for my life” (a cui va la palma di brano maggiormente adescante dell’opera), "
This is our world“ e “
Someone like you”, caratterizzate da un enfatico e nobile spirito “radiofonico” in grado di farle emergere da un programma che per il resto si rivela tanto gradevole quanto prevedibile e privo di totalizzanti scosse emozionali.
Impossibile, dunque, nascondere un pizzico di delusione per un disco che aveva i presupposti del “capolavoro” (troppo?) e che a causa di un persistente “sapore” di manierismo lascia i buongustai della melodia con l’amaro in bocca, andando altresì ad arricchire di argomenti la diffusa tesi che vuole una vera “squadra” spesso superiore alla somma di singoli fuoriclasse.
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