Forse sono uno dei pochi appassionati italiani che conosceva già i Fireball Ministry ben prima del nuovo millennio. Il loro nome ha cominciato a circolare da noi ben prima della fine degli anni ’90, come una delle nuove rivelazioni underground statunitensi. Merito di un bisbigliato passaparola tra i pochi carbonari che al tempo seguivano una certa scena rock in espansione, esplosa in modo molto più visibile di lì a poco.
Dunque nel ’99 mi procuravo il loro ormai introvabile debutto “Ou est le rock?” (Bong Load Rec.) raccattando a caro prezzo una delle rare copie giunte nel nostro paese. Tanto era alta l’aspettativa da me riposta nel disco, quanto forte fu la delusione che seguì l’ascolto.
Per carità, un lavoretto discreto e passabile, ma nulla che giustificasse l’entusiasmo trapelato dai fans americani. Un classic-rock estremamente pulito e ben condito di appigli melodici, decisamente troppo fighettino per fare breccia in ambito stoner, dove ovviamente la critica nostrana lo aveva piazzato secondo la bizzarra regola (in vigore ancora adesso..) che qualsiasi formazione abbia anche solo una pallida ombra di influenza settantiana o roba simile, è indiscutibilmente stoner-rock (sic!).
Però i Fireball Ministry esibivano anche un marcato atteggiamento da rockers senza compromessi, che a mio parere impediva loro di entrare nelle grazie di quel pubblico che non ama gli eccessi machistici ed i “rock’n’roll losers”. Per farla breve, non avrei scommesso un soldo sulle possibilità del quartetto di Los Angeles di ottenere un successo commerciale anche limitatissimo.
Come sempre avrei perso la scommessa. Ennesima riprova che in campo musicale l’enorme passione e l’eccessivo coinvolgimento si conciliano assai poco con il fiuto per il business.
I Fireball Ministry non sono certo diventati stelle di prima grandezza, ma il loro secondo lavoro “The second great awakening” (2003) negli States ha venduto benino anche grazie all’appoggio di Nuclear Blast, dove evidentemente hanno creduto in loro più del sottoscritto. Quindi grazie a tale responso commerciale il gruppo è salito di qualche gradino nella scala del livello d’interesse, al pari ad esempio di un quasi analogo europeo come i Red Aim, in barba ad un esercito di formazioni che suonano un rock mille volte più grezzo e cattivo, e per i miei gusti più eccitante, ma restano spendibili solo per una nicchia di cultori specializzati.
Ma veniamo a questo terzo sermone della “Prima Chiesa del Rock’n’roll”, la definizione alquanto pomposa ideata dal Rev. James Rota II per la propria creatura. In base a ciò che si è detto del precedente album era lecito attendersi ben pochi cambiamenti, visto che in questi casi occorre battere il ferro finchè è caldo. Tutto secondo copione, infatti le sole novità significative sono il cambio di etichetta che ora è diventata Liquor and Poker, sussidiaria di Century Media, e l’ingresso del nuovo bassista Johny Chow. Per il resto c’è la piena conferma della linea precedente e si va avanti su binari saldamente consolidati.
I Fireball Ministry non fanno alcun uso di riffs granitici, di ritmiche poderose, di assoli torrenziali, le loro atmosfere non hanno nulla di alcoolico, di acido e neppure di doomeggiante. Alcuni hanno visto in loro richiami ai Black Sabbath, ma a mio parere si condensano quasi interamente nella voce strascicata e cantilenante di Rota, che ricorda da lontano il primo Ozzy, ed in qualche passaggio rallentato dai toni scuri, ma ben poco d’altro.
Il rock degli americani non contiene tenebrosa drammaticità, né tetra sofferenza, anzi si mostra luminoso, limpido e scorrevole, ordinato e tutt’altro che spigoloso, ed in alcuni tratti si adagia in un mood languidamente carezzevole quasi a voler dimostrare l’esistenza della faccia gentile dell’hard rock. Ma come già detto all’inizio, la vera abilità della coppia musicale e di vita Rota-Burton, cuore e cervello del gruppo, è di saper sempre sfornare canzoni fresche e variegate con i pochissimi elementi a disposizione.
Brani indubbiamente orecchiabili e trascinanti come “It flies again”, singolone che profuma di vecchia scuola ma occhieggia al rock-fm, oppure leggermente più anthemici e pronti per essere sfoderati al momento giusto durante i concerti per dare una scaldata al pubblico, vedi “Sundown” o “Save the saved”. Una serie di canzoni che scivolano senza intimidire ed ancor meno stordire, ideale colonna sonora per un lungo viaggio sulle highways o per un party dove occorre che tutti restino composti e con i vestiti addosso.
Altre astuzie messe in atto dal gruppo sono quelle di evitare l’inserimento di ballate radio-oriented, al massimo troviamo un buon slow cadenzato come “Hellspeak”, e di stare attenti a non confezionare nulla di eccessivamente elegante o dolciastro per tenersi a debita distanza dal mondo class-rock.
I comandamenti del reverendo Rota finiscono qui. Alla fine lui è un onesto mestierante che trent’anni fa sarebbe forse passato inosservato, ma nello squallore imperante oggi riuscirà invece a guadagnarsi nuovamente la pagnotta con un disco nulla più che dignitoso.
L’imponente muraglia di casse che campeggia in copertina non ingannerà i rockers oltranzisti, che punteranno su altri nomi, ma i Fireball Ministry ormai hanno imparato a coltivare il proprio seguito tra la gente che immagino li consideri come la versione aggiornata dei Meat Loaf.
A queste persone l’album piacerà parecchio e stavolta non credo di sbagliare previsione.