E' risaputo, la musica non conosce ed abbatte confini, unisce e congiunge popoli, culture, etnie e costumi magari lontanissimi geograficamente parlando.
Spesso in passato tutto questo si scontrava con difficoltà oggettive e limitazioni tecniche, tutti ostacoli che la tecnologia imperante ci ha permesso di scavalcare con relativa semplicità, a patto di possedere quelle qualità necessarie per emergere, non commercialmente parlando ma proprio a livello di elevazione umana e concettuale, qualità che non si comprano e non si fanno con i numeri, specialmente nella società attuale.
Tutto questo gran giro di parole per dirvi che durante l'ascolto di questo "
Inward | Flare" se non avessi avuto tutte le info promozionali del caso non sarei mai stato in grado di percepire la provenienza geografica dei nostri, sia per la maturità e complessità della proposta, sia per qualità e livello della produzione, di cui sfido a non riconoscere la portata internazionale.
Ed invece i cari
Ginkgo DAWN Shock vengono dall'assolata Molfetta, perla pugliese che si affaccia sull'Adriatico, posto meraviglioso ma che fino a pochi anni fa difficilmente sarebbe riuscito a proporre qualcosa di così valido ed universale.
Un universo appunto quello contenuto in "
Inward | Flare", ricchissimo di contenuti, sfaccettature, multiverso e direzionale, portatore di una grande sicurezza in fase compositiva, più matura di quanto la giovane età del gruppo potrebbe lasciar supporre.
Post rock? Progressive? Psichedelia? Nomenclature che possono forse servire ad inquadrare il lavoro dall'esterno in fase di approccio ma che diventano totalmente inutili una volta addentratici: molto più produttivo immergersi nell'album a 360°, un ascolto attento e svagato allo stesso tempo, al buio, in cuffia magari, in modo di poter spaziare con la propria mente e l'animo leggero, carpirne ogni sfumatura, ogni accenno di rabbia e di quiete.
Impressionante il martellamento continuo imposto dalla sezione ritmica con l'inesaurile batteria di
Gilberto Bufi e le vorticose linee di basso di
Gabriele Terlizzi, deliziose le trame chitarristiche di
Giordano Bufi, in compartecipazione con quelle di
Alessandro Ciccolella, decisamente a proprio agio anche dietro il microfono, con tonalità che a volte mi hanno richiamato alla mente quelle di un giovane
Eddie Vedder. "
Mankerat" e sopratutto la disperata "
Klys" i brani migliori, ma sarebbe un torto agli altri 8, questo non è uno "spotify album" e va goduto nella sua interezza e con mezzi e tempi adeguati.
Un disco progressivo, nel senso che ti fa progredire come persona.
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