Conservo un bellissimo ricordo dei
Tora Tora, autori agli albori degli anni novanta di due eccellenti lavori di
hard-rock blues, alimentato da un bruciante combustibile fatto di Van Halen, Rolling Stones, Aerosmith, Led Zeppelin, Montrose e Tesla.
Nonostante i “ritorni” siano ormai già da un po’ all’ordine del giorno, francamente non mi sarei mai aspettato di vedere il gruppo di Memphis pubblicare (dopo alcune raccolte di ripescaggi vari uscite negli anni 2000) un albo nuovo di zecca, per di più realizzato dalla sua formazione storica al gran completo.
Evidentemente alla
Frontiers Music devono aver pensato che la qualità esibita dalla
band in un periodo poco felice per certe sonorità meritasse una nuova
chance ed ecco che, complice anche l’apparentemente inestinguibile “effetto revival” che contraddistingue la scena contemporanea, “
Bastards of beale” arriva fino al vaglio del mio avido e un po’ “sospettoso” (gli accade sempre, in queste circostanze …) apparato
cardio-uditivo.
E allora diciamo subito che pur non potendo cancellare il peso emotivo dei “ricordi”, il presente dei
Tora Tora ci riconsegna una formazione abbastanza agguerrita e motivata, “onesta” e integra nel riproporre la propria innata vocazione artistica, esente da pose e formalismi.
Una formula “semplice”, se vogliamo, ma proprio per questo non facile da rendere credibile qualora spogliata dalla giusta vitalità e attitudine.
Superata la particolarità della voce di
Anthony Corder (oggi, a tratti, leggermente affaticata …), sono certo che anche i neofiti apprezzeranno l’ardore
blues di “
Sons of Zebedee” (con un pizzico dei Free nell’impasto sonoro), “
Giants fall” e della Zeppelin-
esca “
Everbright”, tutta “roba” che trasuda apprezzabili dosi di
feeling e vigore espressivo.
Se, però, volete veramente comprendere di cosa sono veramente capaci questi “ragazzacci” del Tennessee, il consiglio è di soffermarsi su “
Silence the sirens”, strisciante e contagiosa, sul vibrante salmo “
Son of a prodigal son” e su "
Rose of Jericho”, la dimostrazione che, con il “trattamento” adeguato, il
Grande Vecchio Rock n’ Roll gode di ottima salute.
“
Lights up the river” è una ballata acustica che sembra scaturire dalle acque limacciose e placide del Mississippi, “
Let us be one” avvolge l’astante con le sue spire cupe polverose e “
All good things” fornisce al suddetto una bella scossa di elettricità
stradaiola, mentre “
Vertigo” è uno strumentale che consente di porre l’accento sull’abilità e sul gusto esecutivo di
Keith Douglas e sulla solidità, non priva di estro, della sezione ritmica composta da
Patrick Francis e
John Patterson.
Con una frizzante
title-track si chiude un disco che non esito a definire, in ossequio al singolare
monicker del gruppo (ispirato a un brano di "
Women and children first", ma anche al significato del famoso messaggio in codice giapponese, da cui il titolo del debutto dei
Tora Tora), un “attacco a sorpresa” discretamente riuscito, nella speranza che rappresenti l’inizio del nuovo corso, da liberare dall’attuale sottile patina di “ruggine”, di un manipolo di “puri” interpreti di un suono immortale.