Quesito: può una recensione composta pressoché esclusivamente da critiche condurre ad un giudizio complessivo addirittura discreto?
Risposta: presumo di sì, dal momento che è proprio ciò che mi accingo a fare.
Eccoci dunque, senza cincischiamenti ulteriori: a “
Tales of a Pathfinder”, secondo
full length degli
Atlas Pain, vanno a mio umile avviso ascritte svariate problematiche:
Sviluppo del conceptL’idea di una spedizione alla
Jules Verne in salsa
steampunk, in cui i protagonisti viaggiano nel tempo e nello spazio per entrare in contatto con antiche civiltà, leggende obliate e popoli ignoti, sino all’approdo in un nuovo mondo, era ambiziosa ed interessante.
Peccato che le buone premesse sotto il profilo dell’impianto lirico vengano parzialmente dissipate dal punto di vista musicale, ove non si rinviene che vaga corrispondenza con quanto accade a livello di trama.
Che so, il ricorso a qualche bizzarro strumento tradizionale dell’epoca, la comparsata di
guests provenienti dalle terre descritte in quel particolare brano, l’elaborazione di arrangiamenti riconducibili al luogo di volta in volta preso in esame… spunti che avrebbero contribuito all’irrobustimento di un
concept che, invece, rimane quasi esclusivamente testuale.
Identità musicaleIl combo italico, perlomeno alle mie orecchie lesionate dall’obsolescenza, suona come un gruppo
pagan che vorrebbe tanto saltar la staccionata ed entrare nel colorato reame del
power.
Troppo spesso sembra di sentire gli
Ensiferum che coverizzano gli
Avantasia, il che rischia di ingenerare malcontento presso entrambe le fazioni coinvolte. Traduzione: i
fans del
viking storceranno la bocca di fronte all'eccessiva zuccherosità (scusate il neologismo) della proposta, mentre i
metallers più
happy oriented andranno a cozzare contro ritornelli in
growling colpevoli di dissipare l’enfasi drammatica delle linee vocali (i cori in appoggio aiutano, ma non risolvono il problema).
Per quanto mi riguarda, urge un chiarimento a livello di coordinate stilistiche.
Scelte di soundCe n’eravamo già accorti in occasione del
debut, ed il discorso non cambia in questa sede: gli
Atlas Pain prediligono produzioni tanto perfette sotto il profilo formale quanto plasticose al risvolto pratico. A tale scelta, visto il genere, si può accordare diritto di cittadinanza, e d’altro canto pare che solo a noi matusa brontoloni di
Metal.it non garbino i suoni artificialmente pompati d’oggidì.
Nondimeno, a me resta l’intima convinzione che una cotale morbidezza sgonfi non poco il fattore genuinità, oltre a rendere pressoché innocui le ritmiche ed i
riff teoricamente più aggressivi (si senta in proposito la pur bella “
The Moving Empire”, galoppata
pagan folk alla
Finntroll la cui carica battagliera rimane monca a causa dei suoni, o ancora “
The Great Run”, che annovera alcuni arrangiamenti degni della sigla di
Dragon Ball).
SongwritingI Nostri ci sanno fare eccome, ed in “
Tales of a Pathfinder” non mancano momenti di valore (“
Kia Kaha” su tutte), gustose melodie di chitarra (la pur prolissa “
Homeland”),
chorus ben congegnati (
in primis “
Hagakure’s Way”, sebbene mi ricordi nientepopodimeno che quello de “
L’Isola di Wight” dei
Dik Dik)… al tempo stesso, dopo numerosi ascolti non riesco ancora a rintracciare una
hit in grado di elevarsi sopra la concorrenza, così come non rinvengo quella progressione complessiva che sarebbe stato lecito attendersi rispetto al precedente “
What the Oak Left”.
Una gragnuola di critiche e comunque un bel
7 in pagella, proprio come si diceva in premessa.
Questo perché gli
Atlas Pain possiedono un talento non comune, sebbene non ancora espresso appieno.
Chissà che, come vuole il
cliché, non sia proprio il famigerato terzo
album quello della proverbiale svolta…
Attendiamo fiduciosi al varco.