A volte capita di ascoltare dischi che sono lontani dagli stili musicali preferiti, cosa che considero comunque un arricchimento del proprio bagaglio musicale. È il caso dei danesi
Volbeat, giunti al settimo lavoro di una carriera che li ha gratificati di grandi soddisfazioni commerciali. Ed anche se recentemente sono stati coinvolti in una spiacevole diatriba con la stampa locale, che ha boicottato per protesta la presentazione di questo “
Rewind, replay, rebound”, non dubito che otterranno un nuovo grande successo di pubblico.
La loro proposta comprende elementi di rock radiofonico, vibrazioni rockabilly e sagaci spunti hard’n’heavy, tutto amalgamato con l’obiettivo di una costante e vincente orecchiabilità. Prendiamo il singolo “
Last day under the sun”, che è il classico pezzo da radio rock americana: ritmo pacato e piacevole, con vaga reminiscenza Aor, bella impostazione vocale e ritornello che vi ritrovate a cantare senza nemmeno accorgervene. Break melodico, un breve assolo di chitarra, ed il gioco è fatto. Semplice ed efficace. Però non tutti sanno farlo bene, senza scadere nel melenso.
Un altro pregio dell’album è la varietà di soluzioni: ad esempio “
Pelvis on fire” è un energico rock’n’roll che mischia Presley con gli Stray Cats, così come la trascinante “
Die to live” che si avvale del contributo vocale di
Neil Fallon dei Clutch e di piano e sax molto anni ’50.
“
Sorry sack of bones” è un altro rockabilly che potrebbe essere stato scritto da Brian Setzer, invece “
Cheapside sloggers” ha un gradevole taglio da hard rock melodico che si irrobustisce nella parte centrale grazie all’assolo di
Gary Holt, il celeberrimo chitarrista di Exodus e Slayer. Si torna all’appeal radio-oriented con “
Maybe I believe” e
“7.24”, dedicata dal cantante Michael Poulsen a sua figlia, mentre “
The everlasting” mostra i passaggi più metallici dell’intero album pur rimanendo assolutamente fruibile a tutti.
La prestazione vocale è impeccabile, il chitarrista
Rob Caggiano è un buon generatore di riff e la sezione ritmica svolge onestamente il proprio compito. Certo, ci sono dei brani che sfiorano l’edulcorato adolescenziale (“
Rewind the exit", "
When we were kids", "
Cloud 9", "
Leviathan”), che sono comunque indirizzati a coinvolgere un audience non avvezza all’hard’n’heavy tradizionale, evidente traguardo che si è posta la band danese.
In conclusione, un album che non inserirò certamente tra i miei preferiti dell’annata, al quale però riconosco la buona fattura, la gradevole orecchiabilità e che mi sembra ideale per accompagnare un lungo viaggio in auto senza scontentare nessuno.