E’ già successo e sono convinto (oggi sono stranamente ottimista …) accadrà di nuovo: sarà l’
underground ad apportare qualche importante “novità” alla scena musicale contemporanea, eccessivamente pavida e in piena stagflazione.
Nell’attesa di tal evento, per affrontare al meglio questo periodo di transizione, al
musicofilo non rimane che affidarsi a chi sa far funzionare al meglio quello che già esiste e allora ben vengano gruppi come quello degli
Hunternaut, che emergono dalle cantine bresciane per proporre un’efficace miscela di
rock “alternativo”.
I loro modelli si chiamano Pearl Jam, Alice In Chains, Stone Temple Pilots, Creed, Staind e Tool e anche se in
“Inhale” è rilevabile tanta “devozione” e poca “rivoluzione”, ogni suo brano è piuttosto ben strutturato ed equilibrato nei vari elementi tipici del genere.
Sostenuto da una pulsante sezione ritmica e fomentato da chitarre frementi (plauso speciale al gran lavoro svolto) e dal bel timbro vocale di
Cristian Longhena, il disco combina, infatti, solidità, introspezione e catarsi, riuscendo a conservare una certa tensione espressiva per tutta la sua durata, un elemento indispensabile per catalizzare l’attenzione dell’ascoltatore.
“
Oxidize”, “
Inside me” e “
Backbone” sono brani ricchi di
pathos e la medesima caratteristica è riscontrabile nelle ballate “
Soap bubbles” e “
Hundreds of scars” (appena un pizzico prolissa, invero), alimentate da un lirismo intenso e coinvolgente.
Il pezzo che dà il titolo all’albo è un eccellente esempio di ruggente e magnetica inquietudine (figlia dei maestri Tool), mentre decisamente meno convincenti appaiono le digressioni languide di “
Out there”, spazzate via dalla poderosa “
I’ll be there”, un vortice di
Seattle-sound dai connotati piacevolmente Pearl Jam-
eschi.
Un debutto godibile, insomma, adatto ad “ingannare il tempo” aspettando qualche significativo segnale d’evoluzione …
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