Sascha Paeth non ha decisamente bisogno di presentazioni. E’ probabilmente il produttore di metal melodico più famoso e di successo del nuovo millennio, senza dimenticare il suo passato (e presente) come musicista, prima nei seminali e sempre colpevolemente sottovalutati
Heavens Gate, ed ora negli
Avantasia.Pur essendo un produttore e musicista di primo piano, il buon
Sascha ha sempre dovuto il suo successo alle band altrui fino a che, nel 2018, unendo le forze con la nostrana
Frontiers Record, sempre pronta a fiutare una buona occasione, ha capito che il momento fosse giunto per lanciarsi in un progetto solista, che lo vede coinvolto come compositore e chitarrista.
Circondandosi da musicisti di primo piano (quasi tutti presi in prestito dagli
Avantasia), mettendo al centro del progetto (considerato come una vera e propria band) la sua nuova musa ispiratrice, la giovane americana A
drienne Cowan, scoperta producendo il di lei gruppo
Seven Spires, e dotata di qualità vocali fuori dal comune per versatilità ed estensione,
Sasha Paeth tira fuori un buonissimo lavoro, un prodotto dal suono moderno, ma con qualche rimando al passato remoto degli
Heavens Gate.
Il nostro timore, prima dell’ascolto del disco, era quello di ritrovarci ad ascoltare un prodotto troppo sinfonico o inutilmente pomposo, paura messa subito a tacere dall’opener
The Time Has Come, uno dei pezzi più riusciti del platter, che mette subito in mostra chitarre molto heavy, al limite del thrash, e dove la voce della
Cowan la fa da padrona, passando da tonalità proprie di un mezzo soprano, ad uno scream ed ad un growl potenti e naturali.
La versatilità della giovane americana è un bel punto a favore della riuscita del disco, anche se a volte sembra voler strafare quando non necessario, solo per mettere in mostra tutte le sue capacità vocali.
Non c’è bisogno di aggiungere che la produzione è cristallina e perfetta, focalizzata sulle tessiture e trame di chitarra di
Paeth, con il supporto di melodie di tastiera mai invadenti o fastidiose.
Il songwriting si assesta su livelli medio alti lungo tutta la durata del disco, raggiungendo bei picchi in occasione della title track, di
Die Just a Little, pezzi dalle tinte gothic, o da
Bound in Vertigo, con i suoi rimandi alle band di Tobias Sammet, ma ci sono anche passaggi a vuoto, come la stucchevole ballad
The Path, o la moderna
Sick, banale nella musica e nelle lyrics.
In conclusione, un esordio decisamente interessante con l’augurio che i
Sascha Paeth’s Master of Ceremony possano andare avanti, crescere, e maturare come una vera band, e non come uno dei tanti progetti della
Frontiers accantonati e dimenticati dopo poco tempo.
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