Le produzioni
Small Stone sono da sempre una garanzia, per quanto riguarda l'ambito del vintage-rock, dello psych, dello stoner. Questa volta l'etichetta del Michigan pesca in casa propria, a Detroit, una gran bella band che si chiama
Bison Machine, al suo secondo full-lenght.
Diciamo subito che lo stile della formazione si inserisce in quel filone che possiamo definire retrò-rock settantiano, sul genere di Nebula, Atomic Bitchwax, Radio Moskow, Joy, Mount Carmel, Simo e compagnia. Rock di ottimo impatto epidermico, grintoso ma con grande feeling melodico, robusto e carico di groove, ricco di stimolazioni bluesy e psichedeliche, riff incisivi e cambi ritmici, chitarrismo torrenziale e quella patina di reminiscenza seventies che ci riporta all'epopea del miglior rock. Prendiamo ad esempio la calda title-track, che alterna passaggi boogie-rock ad accelerazioni più rocciose, per evidenziare la freschezza compositiva espressa dal quartetto americano. Oppure la Cactus-iana "
Star child", con strutture hard rock che si coniugano ad uno spirito soul e a vibrazioni psichedeliche, altro brano assolutamente pieno di significato e personalità palese.
Anche gli episodi più torridi ed immediati, come "
The tower" o "
Electric eliminator", funzionano alla perfezione: la voce vagamente Plant-iana di
Tom Stec si sposa alla perfezione con il chitarrismo turgido di
Casey O'Ryan e con una sezione rimica fluida e flessibile (
Anthony Francina e
Breck Crandell). Altro hit dell'album è la cavalcata finale "
A distant sun", con quel retrogusto nostalgico-space che mi ha ricordato alcune cose dei Graveyard, ma è comunque tutto il lavoro che si presta ad essere gustato dal principio alla fine.
Il sottobosco nel neo-rock settantiano continua a generare formazioni interessanti, che trasmettono energia, capacità strumentale e compositiva e soprattutto una certa gioia di fare musica senza badare ai trend più attuali o all'ostinata ricerca di soluzioni estemporanee. I
Bison Machine sono una di queste formazioni.
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