Inutile tentare di fingere, simulando un razionale distacco di tipo “giornalistico” … gli
Eclipse sono inequivocabilmente una delle mie
band preferite e assegno agli svedesi l’onore e l’onere di essere una delle poche formazioni dell’era moderna capaci di non far rimpiangere, nemmeno al “nostalgico” più irriducibile, il periodo aureo del
rock melodico.
Appare quindi chiaro come ogni nuovo disco di
Erik Mårtensson e dei suoi straordinari accoliti diventa, oltre che un momento di ansiogeno ed entusiasta nutrimento
cardio-uditivo, un’occasione per confrontarsi con un’asticella artistica molto alta, “impossibile” da abbassare.
E allora, giunti finalmente all’ascolto reiterato di “
Paradigm”, mi sento di confermare l’impegnativo ruolo descritto all’inizio di questa disamina, in virtù di una consolidata esposizione di luminoso talento, in grado altresì, proprio come accade ai
Maestri del settore, di infondere nuova vitalità e linfa espressiva alle proprie prestazioni musicali, frantumando così il coriaceo involucro della prevedibilità.
Attraverso un percorso sonoro leggermente meno “esplosivo” di certi episodi del loro scintillante passato, gli
Eclipse sottopongono ai
fans una lieve trasmutazione del suono che li ha resi celebri, mantenendo intatti dinamismo e freschezza, trattati, però, con ulteriore “maturità” e maggiore levigatezza, accentuando al contempo la componente “celtica” delle atmosfere.
Solo “sfumature”, si potrà dire in maniera assolutamente sensata e legittima, ma è proprio grazie a tali piccole suggestioni che il gruppo evita di “cristallizzarsi” in uno
standard che, per quanto sontuoso, deve comunque fare i conti con lo spettro della
routine.
Così, se “
Viva la Victoria” rappresenta felicemente l’aspetto più “appariscente” e
anthemico del
songbook degli scandinavi e “
Mary Leigh” appare consacrata all’euforizzante nobiltà dell’
hard n’ heavy, in “
Blood wants blood” e nella ballata “
Shelter me” il clima armonico si alleggerisce fino ai confini dell’
AOR “attualizzato”, ostentando potenzialità “radiofoniche” adatte anche alle (sparute) programmazioni contemporanee.
"
United” mescola Ten e barlumi di Nickleback, “
Delirious”, tra Europe e Whitesnake, è una perentoria traslitterazione dei “sacri testi", mentre “
When the winter ends” condensa in cinque minuti scarsi di note un possente grumo di forza evocativa.
Impossibile, poi, rimanere indifferenti di fronte all’autoritario impatto emotivo della tagliente “
.38 or .44”, allo stesso modo in cui “
Never gonna be like you” colpisce immediatamente per la sua ariosa melodia e “
The masquerade” conquista per una
grandeur epica su cui aleggia l’immarcescibile verbo professato da Dio e Savatage.
Sono nuovamente le sconfinate vedute delle
Highlands, in un misto di romanticismo, malinconia ed eroismo, a materializzarsi in “
Take me home”, un altro brano splendido a conclusione di un albo che non delude le vertiginose aspettative, rendendo ancora una volta gli
Eclipse un capitale artistico d’inestimabile valore, su cui investire senza rischi.