Dubito che il "Sacro Graal" citato nel titolo di questo Cd sia esattamente quello dell'originalità, la cui ricerca "spasmodica" non mi sembra possa essere considerata come una delle priorità vitali del suo autore, l'ottimo chitarrista statunitense Iain Ashley Hersey.
Siamo, infatti, nell'ambito di un'esibizione artistica il cui contenuto potrebbe essere sintetizzato sotto l'espressione "Deep Purple: friends and relatives", realizzata con gran competenza tecnica e gusto compositivo, egregiamente cantata da quattro di quelle voci "tradizionalmente" hard-rock (tra le quali spicca quella di Graham Bonnett di fama Rainbow, MSG, Alcatrazz, ...) che per quanto mi riguarda sono sempre un confortevole diletto per l'apparato uditivo, e la cui godibilità generale, nonostante una certa "familiarità" dei suoni, può essere tranquillamente valutata con il raggiungimento delle zone medio-alte della sua scala di misurazione.
Sono proprio i capostipiti del già menzionato albero genealogico ad essere la prima band che si manifesta nella memoria durante l'ascolto di "The holy grail" (secondo album assoluto di Iain e debutto su etichetta Lion Music), con lo spettro percettivo che si estende subito dopo anche a Rainbow, Whitesnake, Trapeze ed agli altri maestri dell'hard-blues britannico Bad Company, così come i principali modelli esecutivi di Hersey, dal punto di vista squisitamente chitarristico, si chiamano Blackmore, Beck e Hendrix, con una profusione di quelle combinazioni tra scale blues, fraseggi in "minore" ed elementi mutuati dalla musica classica, che riconducono direttamente alla vera e propria "specialità della casa" del grande "The man in black".
Gli ascendenti sono tanto lapalissiani quanto gradevoli, dacché rappresentano l'espressione di un'ammirazione spontanea che evita la mera riproduzione in forma "xerox" e che soprattutto con il passo solenne di "Blood of kings", il groove avvolgente di "In the light" e "To the sea" (tre brani cantati con trasporto dall'eccellente David "Swan" Montgomery), il feeling melodico di "Blink of an eye" (al microfono Randy Williams), oltre che con il terzetto "Going down"-"Walking the talk"-"The holy grail"(dove il "vecchio" Bonnet, seppur con qualche piccolo "appannamento", dimostra ancora perché due musicisti non "facili" come Blackmore e Schenker gli concessero la loro fiducia), mette in pratica la difficile arte del "piacere" nell'ascolto, senza il "peccato" di uno sgradevole senso di arida duplicazione.
Discrete ma forse leggermente meno efficaci appaiono, almeno alle mie orecchie, "Empty planet", "Lost and foolish" e "Calling for the moon", con le vocals appannaggio di Carsten "Lizard" Schulz (Domain, Evidence One), un singer dai comunque buoni tracciati timbrici, tra Bon Jovi e David Coverdale.
Gli immancabili momenti egocentrici arrivano con la "classica" "Toccata in D minor" e con la romantica e suggestiva "Auf wiedersehen", tecnicamente irreprensibili, ma tutto sommato complessivamente abbastanza trascurabili.
Un disco da consigliare agli amanti dell'hard-rock bluesy, che vogliono andare sul sicuro, e senza troppi rischi rintracciare quelle sonorità che tante altre volte, grazie ai capiscuola del genere e ai loro migliori epigoni, hanno saputo stimolare quella produzione di scariche adrenaliniche o endorfiniche che poi spesso conducono a quelle "imbarazzanti" performaces all'air guitar o a quei tentativi d'imitazione vocale (normalmente non troppo apprezzati dai vicini di casa) alle quali si è "obbligati" a sottoporsi anche se l'età anagrafica talvolta consiglierebbe un comportamento mediamente più "controllato".
Rimane aperta, ritrovando una certa serietà, la questione in merito alle effettive possibilità d'affermazione di questo tipo di produzioni, come dire, alquanto "conservatrici", in un panorama discografico dalle innumerevoli e sempre "nuove" offerte ... qui non c'è nulla d'inedito e neanche si cerca di "spacciarlo" per tale, "only good ol' stuff", speriamo che basti per garantire al nostro Iain un futuro artistico senza apprensioni.
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