Nel 1994 s’insediava il primo governo
Berlusconi, il capolavoro di
Steven Spielberg “
Schindler's List” si aggiudicava 7
Oscar,
Kurt Cobain decideva di farla finita,
Granata Press terminava la pubblicazione della prima edizione italiana di
Ken il Guerriero, il
Divin Codino Roberto Baggio sbagliava il rigore che condannava l’Italia alla sconfitta nella finale dei Mondiali, io iniziavo il Liceo Linguistico… e dalle parti di
Rotterdam venivano fondati gli
Officium Triste.
Mi asterrò dal lanciarmi in dissertazioni da matusa circa la crudele ineluttabilità del trascorrere del tempo; tuttavia, non intendo celare la mia incredulità nell’apprendere che la formazione olandese possa già festeggiare addirittura 25 anni di esistenza.
Oddio: forse “festeggiare”, vista l’allegria che la musica degli
Officium Triste sprigiona, è un termine eccessivo; più corretto, semmai, parlare di celebrazione.
E quale modo migliore di “
The Death of Gaia” per farlo?
Già, perché il sesto
full dei Nostri può a ragione venir considerato il pinnacolo di una carriera priva di picchi di notorietà, sempre lungi dalle luci della ribalta, ma immancabilmente contraddistinta da una notevolissima qualità discografica.
Qualità che tracima letteralmente dai bordi del
platter in esame, una volta ancora struggente ricettacolo per anime avvinte dal lutto.
Il
doom metal degli
Officium Triste possiede eleganza nelle partiture, cura negli arrangiamenti, finezza nell’esecuzione strumentale, sapienza nella calibrazione di un
sound che incorpora elementi
dark /
gothic e
melo-death senza smarrirsi mai, calibro nell’utilizzo di un apparato sinfonico mai strabordante e sempre funzionale.
Eppure, più di tutto, il
doom metal degli
Officium Triste riesce ad esprimere una componente emotiva quasi spaventosa.
Brani come l’iniziale “
The End is Nigh” o “
Like a Flower in the Desert” erigono autentiche cattedrali sonore da cui promanano litanie tanto solenni quanto struggenti. Litanie prive di furore ma pregne di amara accettazione di un destino infelice, suadenti eppur mai consolatorie, inesorabili nell’iniettare il morbo della malinconia nell’anima dell’ascoltatore.
Si potrebbe indugiare sull’efficacia del cavernoso
growl di
Pim Blankenstein o lodare il buongusto dei chitarristi
Gerard de Jong e
William van Dijk; si potrebbero elogiare l’insolito
artwork di copertina o la sontuosa produzione; ci si potrebbe impantanare in un’analisi brano per brano che glorifichi gemme del calibro di “
Losing Ground” o “
World in Flames”.
Si potrebbe, certo, ma sarebbe superfluo.
“
Death of Gaia”, molto semplicemente, rappresenta un passaggio ineludibile per chiunque ami certe sonorità, e funge da ennesimo monito a non fuggire dalla tristezza: la sua contemplazione, infatti, saprà materializzare squarci d’inusitato splendore.
Buon venticinquesimo compleanno, cari
Officium Triste.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?