Cari miei
Nile, ci si risente dopo tanto tempo; vi avevo conosciuto musicalmente al
Wacken Open Air 2003 e mi avevate annichilito; mi sono rifugiato nel metal market del festival per fare incetta dei vostri album, e reputo il mio preferito il grande
Black seeds of vengeance.
Ma vi avevo abbandonato negli ultimi album, perché mi sembravate concentrati solo sulla mera tecnica perdendo di vista il vero obbiettivo.
Invece con questo ultimo e devastante album, finalmente vi ho ritrovato; una line-up nuova che annovera i membri
Brad Parris al basso e voce, e
Brian Kingsland alla chitarra e voce a completare il quartetto con il nume
Karl Sanders e la sicurezza di
George Kollias alle pelli.
L’opener “
Long shadows of dread”, é semplicemente travolgente; grande drumming del batterista greco che per dinamicità, colpi, rullate e varietà si pone una spanna sopra dei colleghi.
Brano pesantissimo, con le chitarre che intersecano riffing di pura scuola death e tempi monolitici con delle campane in sottofondo a rendere il tutto solenne.
Ma non solo, basta un breve colpo, che entra un furibondo blast beats con solos virtuosi e tecnicissimi, ma con melodia a confermare la bontà di questa composizione.
E che dire del brano “
Oxford handbook of savage genoicidal warfare”, un brano con un titolo che é tutto un programma.
Partenza devastante con riffing brutali, serratissimi, le vocals del buon
Sanders aggressive come non mai.
I cambi di tempo qui si sprecano, ma sempre dinamici e con perizia al servizio della canzone, come i due vocioni che s’incrociano e i rallentamenti assassini servono a tirare un pochino il fiato.
Il brano lungo e intenso “
Seven horns of war”, rende bene l’atmosfera antica dell’Egitto del tempo che fu.
Un brano magniloquente, irrobustito con ferocia, brutalità implacabile dei musicisti, ma soprattutto quel feeling sinistro, minaccioso nell’intermezzo orchestrale con un vocione declamatorio prima dell’assalto tellurico del buon
kollias e armonizzazioni di chitarra.
“
Snake pit mating frenzy”, non si perde in fronzoli scaricando addosso un brano brutal/death metal tecnico, letale e furibondo.
Basta sentire quei riffing, quelle progressioni precise al millimetro, eppure non fredde ma calde e possenti; la produzione potente e cristallina é un’arma in più.
“
Thus sayeth the parasites of the mind”, e “
Where is the wrathful sky”, sembrano collegati assieme.
Il primo, una breve strumentale orchestrale con strumenti antichi, con un sapore unico che solo questi americani sanno portare all’ascoltatore.
Il secondo, preceduto dal drumming del “polipone” greco e rumori temporaleschi, é proprio una tempesta death metal.
I nostri non cedono di un passo, efferatezza chirurgica nei riffing a spirale ossessivi, tempi veloci e rullate telluriche ed il vocione del buon
Sanders che aggredisce.
Ma non é tutto, intervengono virtuosismi acustici, percussioni e atmosfere ultraterrene, con cori che irrompono nel brano brutale dotato anche di un solo brevissimo e letale.
Io sono felice come un bimbo alle giostre, perché qui sono tornate le canzoni, e che canzoni!
Un disco che mi fa riscoprire piacevolmente una band che avevo lasciato, ma che ritrovo in splendida e minacciosa forma; enter the
Nile cult!