Sentivo la mancanza di queste affascinanti atmosfere rockblues, delle esplosive digressioni strumentali ricamate da un’immensa classe senza tempo, del profumo intenso e solitario di praterie sconfinate. Finezza, tecnica, sentimento. Nel breve volgere di un disco vengono ridimensionati centinaia di pur valenti emulatori dal ritorno di questi grandi maestri. Allman Brothers Band. Il southern rock. Binomio inscindibile.
Dove i Lynyrd hanno dato risalto alla componente hard dello stile sudista e la Marshall Tucker a quella country-tradizionale, la formazione generata dai fratelli Allman in trent’anni di carriera ci ha illustrato il lato “black” di questa musica, tra formidabili escapismi blues, sensuale calore soul, leggiadri arabeschi jazz, stile inconfondibile che ha superato tutte le traversie del destino per arrivare immutato ed ammaliante al presente “Hittin’the note”.
Ci sono ritorni di bands che generano più che altro tristezza e rimpianto per i tempi lontani, altri che testimoniano invece l’inefficacia del peso degli anni su musicisti di livello superiore.
Ascoltando la colossale jam “Instrumental illness”, dodici minuti di acrobazie solistiche in totale libertà, non sembra davvero siano trascorse tre decadi da quel famoso primo album del 1969 e nemmeno i nove anni dall’ultimo lavoro in studio. Stesso tocco magico e rilassato, stessa ode all’improvvisazione, al concetto di free-rock nuovamente così in voga in quest’era di musica prefabbricata, stessa pacata eleganza, felpata tranquillità e sicurezza nei propri mezzi, un sound che scivola lento e maestoso come pigramente scorrono le acque del Mississippi, il fiume tanto legato all’animo degli artisti del Sud.
Come corrente si snoda “Desdemona”, carezzevole e vellutato blues notturno che d’improvviso si dilata nervosamente in una cascata di lead guitars, cavalcata che ci fa sognare di purosangue liberi e fieri.
Certo non c’è più il grande Dickey Betts, ma si percepisce la forte personalità di Warren Haynes, dal tocco mai ridondante, mai autocompiacente e masturbatorio, affascinante nel costruire architetture prog-blues senza prendere il sopravvento in una sorta di appendice dei suoi Gov’t Mule. Un paio di generazioni lo separano da Derek Trucks, nipote del drummer Butch Trucks, astro nascente della sei corde, ma la fluidità dei loro duetti li fa sembrare coetanei nella stessa gioiosa voglia di divertirsi e di stupire, vedi la funambolica “Rockin’horse”.
Anche un assaggio di poesia acustica, “Old before my time” country da tramonti infuocati, ed ancora uno stupendo slow ad ampio respiro “The high cost of low living”dalla melodia memorabile.
Nessuna melensa canzonetta, nemmeno sproloqui di note fini a se stesse, in quest’album trovate bellissime songs illuminate dalla calda voce di un Greg Allman in forma strepitosa. Dalla grintosa “Firing line” alla vivace e swingata “Maydell” fino alla cover di un brano degli Stones trasfigurato in un blues d’antologia, è un rincorrersi di gemme mature. Senza fretta, morbidamente, riassaporiamo le emozioni conturbanti create da questi artisti per i quali il tempo sembra essersi fermato.
Non rimane che inchinarsi di fronte ad una formazione di giganti del rock, ben al di sopra di specificazioni settoriali talvolta fuorvianti.
Che si parli di southern, di rockblues o più semplicemente di puro e splendido rock, questo è certamente uno dei dischi dell’anno.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?